Centomila, una nessuna

Un’altra giornata persa, un’altra sconfitta. Il cielo grigio della città, rettangoli di nuvole e pioggia ritagliati tra cornici dei grattacieli e delle torri di Downtown, si chiuse su di Harry, mentre lasciava l’ufficio per correre verso la metro, scansando le pozze pizzicate di gocce e i tassisti inferociti dell’ora di punta. Solo un’altra giornata persa, l’ennesima di molte, troppe, pensò accalcandosi verso le porte scorrevoli, mentre lottava per scivolare dentro, lui e altri mille anonimi disperati. L’odore della gente, umano e troppo umano, riempiva il vagone. 

Che odore ha un pendolare stanco? pensò oziosamente, ingoiando l’ennesima pillola di Onirina, mentre il suo riflesso sul vetro scivolava sullo sfondo veloce e frammentato dei cartelloni pubblicitari (arruolatevi, le Colonie vi aspettano, la nuova Mantra Iper è l’auto-auto dei nuovi vincenti, il sintocibo delle Fattorie Idroponiche lava più bianco del bianco….). L’odore del pendolare sa di sconfitta, concluse, di rinuncia. 

E che voce ha, il pendolare stanco? Non ha voce, rifletté, ma solo rumore di denti e unghie con cui si aggrappa alle sue illusioni, per non cadere, per non crollare, fingendo di crederci, fingendo che la sua vita gli basti.

Mentre il treno lasciava la Central, ormai quasi vuoto, ripensò alle lunghe ore passate in ufficio. Non aveva combinato nulla, neppure oggi: si, aveva lavorato, certo, per l’intera mattinata s’era concentrato sul lavoro, s’era smazzato più di centoventi candidature, riuscendo per un po’ a non pensare a “loro”, testa bassa, ignorando i saluti e le battute. Aveva pranzato da solo, pur di non vederle, di non doverci parlare. Non era servito: quando quella si era avvicinata, invitandolo per un caffè, aveva ceduto. 

Stavolta era stata Francisca, la chicana dal seno grosso, un metro e settantacinque e una quarta abbondante, accattivante: era ipnotico il modo in cui le ballavano le tette sotto la camicetta, quando camminava nel corridoio, l’evidente voglia d’esplodere del terzo bottone, quando s’appoggiava di sbieco al distributore (bloccandogli il passaggio), la camicetta tesa a disegnare i grossi capezzoli …. 

Lui cercava di non guardarle, quelle tette: ci sarebbe stato tempo per ripensarle, rivedersele davanti, sognare e fantasticare, come ogni sera. Lei e le altre, pensò …

E intanto Francisca parlava, parlava, parlava. Solo dopo mezz’ora di chiacchiere insulse sulla madre di lei, sepolta in chissà quale condominio di periferia, e ovviamente incapace di capire le sue legittime, moderne aspettative di realizzazione … solo dopo mezz’ora d’orologio era riuscito a liberarsi, e solo perché il tecnico del condizionamento li aveva sloggiati. 

E quello era stato solo l’inizio. Tornato alla scrivania aveva trovato la chiamata di Anne Louise, l’aveva cercato per un parere su una candidatura (prima candidatura, donna, quarant’anni, nubile – si diceva ancora così? – buona preparazione tecnica e militare), una scusa evidente, lampante (e inevitabile). 

Anne Louise, pensò scivolando tra le scrivanie mezze vuote, trentott’anni, lontane origini scandinave, single, quasi un metro e ottanta (aveva craccato la sua scheda personale, qualche settimana prima), un seno piccolo e misterioso (sotto quelle stupide sciarpe colorate) due gambe da modella che affollavano i suoi sogni: lunghe, affusolate, caviglie tornite, perfettamente depilate, una pelle quasi traslucida, nelle sue fantasie morbida come il velluto.

Lei aspettava seduta alla scrivania, le gambe accavallate ben in vista: la stronza sapeva qual’era il suo punto debole. Harry fece appena in tempo a infilarsi nel cubicolo, che lei le allungò elegantemente sul tavolo da riunioni, bloccandolo dentro.

“Ciao Anne, ho visto la tua mail, la scheda e tutto il resto, mi sembra in ordine. Qual è il problema?”

“Il problema? Non parlarmi di problemi, ti prego, non sai come sto messa. Ma lo sai che quella stronza continua a telefonarmi, a scrivermi ….”

Niente da fare, c’era cascato di nuovo: Anne Louise funzionava così, c’erano delle parole-trappola, non dovevi dirle, non dovevi nemmeno pensarle, era un attimo e lei dava la stura alle sue lamentazioni.

La stronza, nel caso, era una sua ex: come molte donne, Anne Louise era lesbica, quasi una scelta obbligata in un mondo in cui ormai c’erano quasi tre donne per ogni uomo sessualmente attivo (quel mondo: perché sulle Colonie invece il rapporto era praticamente – e drammaticamente – invertito). Harry continuò per qualche minuto a seguire il filo dei suoi pensieri, mentre lei attraversava per l’ennesima volta le fasi delle sua tormentata relazione, della sua deludente relazione, insomma della sua insignificante relazione con Greta.

Suggerire di bloccare il numero e l’indirizzo di Greta s’era rivelato inutile fin dalla prima volta: Anne Louise non cercava soluzioni, cercava solo un paio di orecchie a buon mercato per rovesciare la sua dose quotidiane di chiacchiere a ruota libera.

Biascicò una scusa qualunque, fingendo di credere che a suonare fosse il suo telefono, sulla scrivania dall’altra parte dell’openspace, e scappò, mentre lei – ormai parlando da sola – finiva di riesumare (ancora e ancora) la storia del Terzo Tradimento di Greta.

Il pomeriggio è ancora lungo, aveva pensato di riuscire ad evitare un terzo assalto chiudendosi nelle toilette degli uomini. Ma si era mosso troppo tardi: Nicole in persona, stavolta. La responsabile dell’Ufficio Candidature lo aveva bloccato nel corridoio, con una scusa qualunque (che picco di produttività oggi, Harry, ho finito adesso di vedere i tuoi numeri ….) per trascinarlo poi nel suo ufficio con il pretesto di discutere delle “sue prospettive” (di Harry, quelle di Nicole erano legate a doppio filo al suo ultimo amante …).

Gli aveva servito il solito, schifoso thé bancha, e lo aveva ammorbato per un’ora di chiacchiere a vuoto, per la maggior parte pettegolezzi e paranoie gerarchiche. 

L’unico lato positivo di Nicole (greca, a dispetto del nome) era il culo: alto, sodo, rotondo come una (piccola) anfora, sculettava nervosamente sotto il suo naso mentre lei girava per l’ufficio. Gli mancava solo la parola (purtroppo non a Nicole …), Harry lo considerava il pezzo forte della sua collezione.

La collezione, pensò mentre scendeva dal treno e imboccava le scale mobili, è l’unica cosa che mi tiene in vita 

(insieme all’Onirina): in un mondo di donne, in una società di donne, in un ufficio di donne, donne che parlano parlano parlano, e non si curano nemmeno se le ascolti, donne che finalmente comandano, perché non c’è più nessun uomo da comandare, donne che forse non li vogliono neppure più, gli uomini. 

In un mondo così, se uno vuole salvarsi la vita deve pur avere le sue regole per sopravvivere. Quindi: la “collezione”.

Niente donne, niente relazioni stabili, troppo pericoloso. Niente più prostitute, eliminate anche loro dopo l’ondata moralizzatrice del Primo Decennio (anche se in realtà sulle Colonie la prostituzione prosperava, per ovvie necessità). 

Non rimaneva che la sua “collezione”:  le sue fantasie, alimentate, letteralmente pezzo a pezzo, dai ‘frammenti’ rubati con gli occhi durante il giorno, per strada, in treno: e in ufficio, soprattutto in ufficio. Frammenti di corpi, di curve, di volumi carnosi più o meno eleganti, un catalogo di schegge di bellezza con cui giocare ogni sera, da ricomporre in infinite combinazioni, senza rischio, senza pericolo, senza coinvolgimento possibile.

In fondo non faceva nulla di male, si prendeva qualche cosa di irrilevante in cambio di tutte quelle chiacchiere che gli rovesciavano addosso: non lo sapeva nessuno, e nessuno lo avrebbe mai saputo.

Le sue fantasie, quindi. 

E l’Onirina, naturalmente. La droga del ventiduesimo secolo, la chiamavano la droga dei sogni: presa regolarmente finiva per attivare stabilmente i siti onirici corticali, permettendo di dare alle proprie fantasie un senso profondo di realtà. Bastava abituarsi a delle parole chiave, c’erano memotecniche anche semplici da usare allo scopo: la droga (sintetica, come tutto in quei giorni) si accumulava nell’ipotalamo, per scatenarsi quando veniva pronunciata la parola giusta. 

Non c’erano effetti collaterali (fisiologici …), non dava dipendenza (fisica): l’effetto durava da mezz’ora a un’ora e mezzo, a seconda del livello accumulato nel cervello. E, soprattutto, i ricordi erano vividi, permanenti, coinvolgenti, a malapena distinguibili da quelli ‘reali’.

Chiuse la porta blindata con attenzione, attivando gli allarmi perimetrali e controllando la scansione anti intrusione sul suo palmare. Tutto a posto, pensò, finalmente sono a casa, finalmente sono in salvo.

Infilò una cena veloce nel microonde (erano tutte cene veloci, le sue, cioè precotte), scappando in bagno per una doccia-massaggio veloce, mentre la parete tv vomitava pubblicità psichedelica condita di notiziari insulsi.

Dopo cena, dopo aver ripulito l’angolo cottura, dopo le solite, noiose operazioni serali, si spogliò, sdraiandosi sul grande vibro-letto. Finalmente rilassato, il busto sprofondato in un mucchio di cuscini d’aria, tirò un profondo respiro e pronunciò la parola magica, la chiave della sua piccola, modesta, insignificante felicità privata.

“Sally”

Nella penombra dell’angolo-notte cominciò a prendere forma, dapprima appena sfumato, poi sempre più definito, una sagoma, un profilo di donna, nuda in piedi davanti a lui, come sempre ai piedi del letto.

Lentamente “Sally” prendeva forma e consistenza sotto i suoi occhi: era alta, quasi un metro e ottanta (come Anne Louise), le lunghe gambe snelle dai muscoli guizzanti. Aveva il seno pieno, tondo e alto di Francisca, bello e leggermente lucido di sudore come lo immaginava sempre, e il culo – statuario, era quello di Nicole. E poi gli occhi grandi, luminosi (Sandra, delle Relazioni Istituzionali) e una bocca generosa e morbida, semi aperta, allusiva (Giorgia, terzo piano, Risorse Umane). Dettagli che si aggiungevano uno ad uno, si precisavano mentre l’onda calda dell’Onirina invadeva il suo cervello, nel silenzio indisturbato della sua casa, al riparo dai rumori e dalle voci del mondo esterno.

Poi l’incantesimo si ruppe, lui si sentì travolgere dalla droga, perdendo il controllo della scena, sotto la spinta del suo subconscio potenziato dall’Onirina. E la (le) donna(e) cominciò (cominciarono) a parlare: tutte insieme, con tutte le loro voci e tutte le loro parole.

“…  e poi, quella stronza di Greta, lo sai cos’ha avuto il coraggio di dirmi, dopo che l’avevo beccata a letto con quell’altra troia ….”

“ … insomma, guarda l’organigramma, lo vedi che è una piramide stretta, affilata, e il vertice, indovina un po’, al vertice c’è un uomo, un maschio: ma lo vedi quanto è maschilista questa azienda …”

“… mi madre non mi capisce, anzi sai che ti dico, non mi vuole capire: ma ti sembra giusto che io debba andarla a trovare ogni santa domenica, chè quella minaccia il suicidio un giorno sì e l’altro pure …”

“ … e mi dice questa cosa incredibile, assurda, velenosissima guardandomi in faccia, con quella bella faccia ancora affondata tra le gambe di quell’altra !! Allora io non ci ho visto più …”

“ … non c’è speranza, perché non è giusto, è una battaglia persa, è una battaglia contro i mulini a vento. Tu lo sai cosa sono i mulini a vento, vero? Pensa che io una volta ne ho persino visto uno, era in un museo, anni fa, mi frequentavo con un tizio dei piani alti, ma poi è venuto fuori che era solo un segretario di seconda linea, assolutamente inutile ….”

“… che poi devo attraversare tutta la città, e pure nell’ora di punta, non meno di un’ora andare un’ora a tornare, io già sono nervosa di mio, perché con tutte le rogne che ci sono qui ti immagini, torno a casa che sono un fascio di nervi e non combino niente …”

“ … un occhio nero, le ho fatto, altro che storie, che per una settimana non s’è fatta vedere in giro per la vergogna. E quell’altra, lo sai cosa ha fatto quell’altra ?…”

“ … ancora un anno, solo un altro anno e ti faccio vedere io che succede, ho già un paio di entrature nella Divisione Armamenti, altro che candidature e candidature, lì girano i soldi veri, vedrai se non me ne vado, e alla svelta pure ….”

“… la mia analista dice che devo smettere di vivere così, che devo cambiare, che ho bisogno di una relazione. Ma certo, dico io, che ci vuole, in fondo di uomini ce n’è pieno, basta fare un paio di anni di criosonno, arrivare su una maledetta Colonia su un planetoide del cazzo …”

Harry, pietrificato sul letto, il pene raggrinzito, morbido nella mano destra, indifeso sotto quel diluvio di parole lanciate a pioggia, lamentele iterative, pettegolezzi logori e confusi, confessioni non richieste, si ritrovò a sperare con tutte le sue forze che l’Onirina smaltisse alla svelta il suo effetto, che l’allucinazione sfiorisse rapidamente, com’era arrivata, per tornare alla svelta, più presto possibile, alla sua anonima, insignificante routine, a quel poco di silenzio e di solitudine che, in un mondo di donne, ancora era possibile.

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