Into the box
In mutande, santiddio, faceva un caldo che neppure un paio di bermuda indosso, men che meno una maglietta. Le persiane, tutte chiuse, anche così la luce – rigata dalle stecche regolari – riempiva la casa vuota.
Estate, di nuovo, di più: ogni anno più calda, afosa. E il tizio dei condizionatori, da giorni si parlava solo con la sua segreteria telefonica, lui in fuga, probabilmente al mare, come tutti. E io invece al caldo, pensò, ma se questo è il prezzo, lo pago volentieri.
Salì le scale a piedi nudi, meditando di sbarazzarsi anche degli slip, il bello della solitudine: un giorno di ferie improvvisato, non premeditato, la moglie al mare per due giorni con un’amica, il capo a giocare a golf a Tenerife, nessuno a dare ordini, a stabilire le priorità.
Era bastato deviare il telefono: dalla scrivania,in ufficio, al suo cellulare, ben in vista nell’ingresso di casa. Poi il notebook con i dati e i documenti di lavoro, pronto nella borsa, et voila, il gioco è fatto.
Ora c’erano solo lui, e la sua lista di cose da fare, piccole incombenze da bricoleur: centellinate, rimandate per settimane, mesi, aspettando l’occasione buona.
Come le ante dell’armadio: un mostro, quell’armadio – ovviamente scelto dalla moglie – dieci ante a persiana, su fino al soffitto, per tutta la larghezza della parete. Legno laccato bianco, cerniere e ferramenta svedese, costato una fortuna.
E adesso l’anta di destra, proprio accanto al lettone, si bloccava un giorno si e l’altro pure, lasciandolo a imprecare, la prossima volta prendo un cacciavite e la risolvo io, o lui o io, che dici, cretino (la moglie), pensa invece a chiamare il negozio, che ci mandino qualcuno, con quello che l’abbiamo pagato…
Lui il negozio non l’aveva chiamato, no, era diventata una questione d’onore, di dignità, di orgoglio maschio. Era figlio di un bricoleur, suo padre aggiustava da sé – con l’aiuto dei figli maschi – lavatrici e frigoriferi, ferri da stiro e la vecchia Giulia 1300, l’Ammiraglia la chiamavano: e ovviamente il padre aveva fatto lui quasi tutti i mobili, in casa, dalla cucina al bagno, passando per le camere da letto.
Ci mancherebbe che io, figlio primogenito della buonanima (inopinatamente stroncato da “infarto da estasi”, ma quella era un’altra storia, lui e il fratello avevano sistemato tutto prima che arrivassero gli altri), ci mancherebbe che io, dopo tutti quei pomeriggi rintanati in garage, a passare al vecchio martello pinze e chiavi e bulloni (“ti ho detto una chiave del dieci, cazzo, non la tredici, la saprai la differenza, no?!”), per mostrargli quant’ero bravo e diligente e disponibile, ci mancherebbe che io mi facessi fregare da una stupida anta fuori squadro.
Davanti a lui, sei metri e passa di legno laccato bianco, immacolato, neanche una ditata, un alone, nulla, pulizia chirurgica in casa loro, una sala operatoria, cazzo, nemmeno i piedi sul tavolino da caffè, quella lo cazziava se dal cestone dei panni sporchi anche solo s’affacciava un mezzo calzino, troppo frettolosamente messo a lavare.
Frigida, lo so da un pezzo che è pure frigida, asettica, sterile: brava a fingere, però, coscienziosa ma certo non entusiasta di assolvere i suoi “doveri coniugali”. Da qualche tempo le occasioni si facevano più rade, quand’è stata l’ultima volta? La sera del teatro, ricordò lui, aprendo la borsa degli attrezzi.
Dovrei farmi un’amante, pensò lui, l’anno scorso c’è stata quella segretaria del reparto vendite, ma poi la scema si è fatta trasferire ….
Prevedibilmente l’anta incriminata non ne voleva sapere di aprirsi. Non mi freghi, pensò lui, adesso vediamo se molli. Fece scorrere la lama del cacciavite tra il bordo e la base dell’armadio, poi provò a fare leva, delicatamente. Fregato! Con un rumore orrendo la lama si sfilò di scatto, tirando una riga netta, visibilissima, sul montante inferiore. Adesso quella chi la sente, vedrai che mi mette in croce per un mese.
A sorpresa, con un leggero squittio, l’anta si aprì a metà. Almeno s’è mossa, pensò. Forzando leggermente, pregando di non fare altri danni (il montante inferiore che raspa sul fondo, rigando la preziosa fodera di faggio a coppale ….), lui ci s’infilò dentro, in mano il lumino da notte rubato in cameretta ai ragazzi. Dentro il vano delle giacche (quattro in tutto, passare in tintoria a prendere le altre) faceva ancora più caldo, ringraziò mentalmente d’essersi liberato dei vestiti giù in cucina.
Le viti di regolazione delle due cerniere in basso sembravano a posto, i registri avevano ancora il puntino di vernice bianca lasciato a mò di sigillo dai montatori. Una vite di fissaggio era allentata, la slitta fissata sul fianco interno si muoveva un po’ quando l’anta ruotava per aprirsi. Lui si allungò per vedere meglio, infilandosi completamente nel vano, e in quel momento successe: come animata di vita propria, l’anta alla sua sinistra, quella che non ne voleva sapere di aprirsi, due metri e sessanta di anta a persiana laccata bianca, alta fin su al soffitto, si chiuse di scatto dietro di lui.
Si girò di scatto, istintivamente pensò a uno scherzo, poi si ricordò d’essere solo in casa, pensò alla slitta malferma, immaginò: vedrai che appoggiandomi di peso l’ho smossa, quella s’è spianata e l’anta, rimessa in piano, s’è chiusa di scatto.
Spinse con la mano contro la persiana, per riaprirla, filtrava un po’ di luce, ma faceva un caldo assurdo … poi spinse più forte, ma niente, non ne voleva sapere. Imprecando sottovoce si girò faticosamente, faccia al muro, in modo da appoggiare testa e spalle contro il fondo robusto dell’armadio, un bel compensato da dieci millimetri, roba di qualità, doveva pesare una tonnellata, ricordava il rumore quando era scappato di mano ai montatori…
Spinse forte, senza troppo garbo: spinse con le braccia e con le gambe, sentendo il fondo inarcarsi sotto le mani, contro il montante inferiore della persiana. Niente.
Si fermò a riprendere fiato, non c’era ricambio d’aria, là dentro. Un filino di panico gli scivolo addosso. Rompere la persiana a calci? Poco pratico: era a piedi nudi, si sarebbe fatto parecchio male con le schegge, poi era mogano massello, piuttosto una mazzetta da cinque chili… e in ogni caso, se lei tornando avesse trovato l’armadio sventrato in quel modo… beh, poteva pure scordarsi il giro delle cantine in Chianti con gli amici.
Pensava, nella penombra, ansimando un poco, sentendosi colare il sudore addosso, se riuscissi a muovere di nuovo quella slitta, a rimettere in piano l’anta, si riaprirebbe … si girò di nuovo, di nuovo imprecando, trovando sotto le dita, più che vedendola, la cerniera, la slitta: era in piano, com’era possibile, non si muoveva nemmeno più.
Corse con le mani lungo i montanti della persiana, lungo il perimetro dell’anta, c’era qualcosa che non andava, da un lato sembrava esserci più spazio che dall’altro, a tastoni trovò un pezzo di cartoncino, una vecchia etichetta, la fece scorrere sui due lati… macché, a metà si incastra, dall’altra parte ci passa un dito… m’è scappata, porcaccia, è finita fuori, eccola lì sul tappeto.
Rifletteva, adesso freneticamente: si vede che prima, quando ho spinto forte coi piedi, con le gambe, non ero centrato e l’ho incastrata ancora di più, fuori squadro, sedicimila euro di armadio con le cerniere svedesi e finisco in trappola che non si riapre manco a morire… ci deve essere un modo per riaprire quest’anta maledetta.
Mezz’ora più tardi, dopo altri tre tentativi, molte bestemmie e molto sudore, cominciò a gridare, a chiamare aiuto. Poi la stanchezza, l’agitazione, il caldo … si assopì, così seduto, le spalle doloranti appoggiate al fondo, le gambe piegate contro la persiana, davanti la visuale a righe del grande letto senza una grinza, l’etichetta di cartone, rossa, usata poco prima sul tappeto peloso, sul comodino, lontano, irraggiungibile, il telefono. Dormì.
Lo svegliò il rumore dei passi: finalmente, pensò senza sapere più che ore fossero, che giorno fosse. Già lucido, fece per chiamare aiuto, di nuovo, più forte. Poi pensò: passi? Senz’altro, e non di una persona sola. Ma chi poteva essere? La moglie non deve rientrare prima di domenica sera, forse lunedì mattina, la colf è in ferie pure lei. Trattenne il fiato, improvvisamente spaventato: ladri d’appartamento, certo, le finestre chiuse, nessuno entrare o uscire, uguale casa disabitata, uguale furto estivo.
E adesso che faccio?
Mentre esitava, il fiato smozzicato dalla paura, il sudore che colava sul petto, qualcuno entrò nella stanza: una voce maschile, giovane, arrogante.
“Così, qui è dove gliela dai? Almeno il letto è comodo? Voglio dire, visto che ti sacrifichi, almeno risparmiati il mal di schiena!”
L’uomo si sedette in fondo al letto, la schiena all’armadio: una schiena grande, muscolosa, spalle larghe e muscoli ben rilevati, glabro o forse depilato, seminudo.
Senza fiato, il cuore in gola, l’uomo nell’armadio osservava la scena tra le stecche della persiana, aspettando la risposta dell’altra persona, già indovinandone la voce.
La donna si sedette a cavalcioni sulle gambe del giovanotto, i seni nudi lucidi di sudore dondolavano sul petto di lui, i capezzoli eretti, il mento teso in avanti, i lunghi capelli raccolti sulla nuca.
“Sei un cretino, ma dovevo saperlo visto la scusa idiota con cui mi hai rimorchiato … comunque io con mio marito praticamente non ho più rapporti, insomma non lo faccio più … scusa, non “gliela do più’ da mesi!”
L’uomo nell’armadio sbarrò gli occhi, incredulo: quella era sua moglie? Quell’amazzone provocante, quella voce arrochita e sensuale … lei? Portarsi un uomo in casa, nella loro camera da letto? Ma già, ufficialmente lui doveva essere al lavoro, in ufficio… mentre lei, la grandissima puttana, si porta a casa il primo che capita.
Sentì la rabbia montare dentro di lui: se potessi aprire quest’accidenti di anta adesso…
I rumori soffocati lo riportarono alla realtà, tornò a guardare fuori: non parlavano più, adesso l’uomo le stava baciando il seno, la barba rada le solleticava la pelle, le labbra di lui schioccavano seguendo la curva delle areole, succhiando i capezzoli. Sempre a cavalcioni su di lui, la donna ondeggiava come fronda scossa dal vento, lentamente, pian piano spingendo il pube contro le anche di lui, strofinandosi contro il suo ventre, sussurrando, gemendo.
L’uomo seduto sul letto, le mani sulle spalle nude di lei, la allontanò, facendola scivolare di fronte a sé, inginocchiata sul folto tappeto (un piccolo rettangolo di cartone rosso ancora là, invisibile a tutti). Poi il giovanotto si sfilò la cintura e sbottonò la patta, abbassando generosamente i pantaloni per offrirle il suo pene, già eretto.
L’uomo nell’armadio continuò a sbirciare, ipnotizzato, guardò la donna accarezzare con le dita (lo sguardo perso, il respiro affrettato) l’enorme membro circonciso, il glande una cappella rossa infuocata, l’asta violacea e striata dalle vene gonfie, la guardò mentre apriva la bocca e cominciava a lambirlo, stuzzicarlo con la lingua, mentre le mani si muovevano con naturalezza, la destra impugnava quello scettro profano, quasi possessiva, la sinistra raccolta a coppa sotto i testicoli, soppesandoli, massaggiandoli, coccolandoli.
Sul letto l’uomo ansimava leggermente, cambiava posizione per offrirsi meglio alla bocca di lei: senza esitare, le sue labbra si aprirono e lo avvolsero, scorrendo verso il ventre di lui, ingoiando quel cazzo enorme fino ai testicoli. Sempre guardandolo in faccia, cominciò a far scorrere dentro e fuori, su e giù, prima concentrata, poi giocherellona: una mano ad accarezzare i testicoli, l’altra ad anticipare le labbra, mentre lo lasciava sfilare da sé con un piccolo rimbalzo, per riprenderlo al volo nella bocca, scivolava dal basso in alto lentamente, per poi tornar giù veloce, per rubare a lui un gemito, un ansito.
L’uomo nell’armadio respirava appena, il sudore scivolava sulla schiena, l’eccitazione aveva preso il posto della rabbia. Senza sorpresa s’accorse d’avere il pene gonfio e turgido, che già sbirciava oltre l’orlo degli slip. Lui, incapace di trattenersi, cominciò a masturbarsi meccanicamente.
Di fuori, la donna aveva abbandonato il suo gioco di labbra e lingua, con una spinta decisa aveva rovesciato l’amante sul letto, i capelli ora sciolti a incorniciare lo sguardo provocante. Dando le spalle al suo uomo, si accovacciò felina, a cavalcioni sul ventre di lui, cercando con la mano e guidando il pene di dentro di sé, lo sguardo sfocato rivolto alla parete opposta, all’armadio silenzioso.
Lo specchio dietro la testiera rimandava all’armadio, l’immagine del culo della donna, natiche tonde e affusolate (tre lezioni a settimana di pilates), schiena flessuosa e imperlata di sudore (massaggiatrice privata ogni domenica pomeriggio).
Su di lei, sul culo di lei, le mani dell’altro che brancicavano le cosce, le arrossavano di sculaccioni e si serravano cercando l’ano, poi un dito umettato, poi due, poi tre rotolavano attorno, in cerchi sempre più stretti, per tuffarsi, uno dopo l’altro, dentro di lei, ancora, di dietro.
Impalata davanti e penetrata da dietro, la donna si inarcò ancora di più, gemendo forte, ansando, mentre l’uomo a sua volta si inarcava, spingendo alte le pelvi contro il pube di lei.
Gli amanti si muovevano sempre più veloci, ansimando senza più ritmo, senza più guardarsi o cercarsi con le mani, tornati ormai animali in amore, persi in una copula primitiva, inarrestabile. Poi la donna gridò, un lungo grido gutturale, disarticolato, immobile contro di lui, la schiena e il collo un unico arco teso, il viso e lo sguardo, cieco, rivolti al soffitto.
Come seguendo un loro rituale, l’uomo si sfilò da dentro di lei, da sotto di lei, s’alzò in piedi sul letto, girandosi per portarsi di fronte alla donna, ancora immobile: il pene di lui, gonfio e teso, le sfiorava il viso.
La donna chiuse gli occhi, e schiuse le labbra, mentre l’uomo si masturbava velocemente davanti a lei, la mano elegante scorreva su e giù, su e giù.
Poi il lungo, trionfale grido di lui, mentre il getto di sperma disegnava un piccolo arco per piovere, generoso, sulle labbra socchiuse di lei, sui seni di lei, sul ventre di lei, una statua, una dea, una giovanna d’arco annaffiata di sborra bianca, fluida, gocciolante, il succo d’amore che la lingua birichina raccoglieva all’angolo della bocca, che le dita nervose spalmavano sul seno, arrotolavano sui capezzoli, che la mano esigente spremeva di più dai testicoli rotondi e gonfi di lui, sgocciolava quasi pignola dal cazzo di lui, sempre rosso di desiderio, e ancora duro come una minaccia, come una promessa.
Nel suo antro sudato, l’uomo dell’armadio era ancora scosso dai sussulti, lo sperma della sua eiaculazione, esplosa insieme a quell’altro, riempiva il palmo della mano, colava tra le dita, alimentava filamentoso la piccola pozza sul fondo del vano. Le spalle si rilassarono, la tensione abbandò le braccia e l’addome. Invaso da un improvviso sopore, l’uomo dell’armadio, il marito, il guardone eiaculato, il cornuto felice, chiuse gli occhi e si assopì.
Quando riaprì gli occhi aveva completamente perso la nozione del tempo. I crampi gli tormentavano le gambe, si mosse silenziosamente cercando di rilassare i muscoli. Poi sbirciò tra le stecche, dietro la persiana la stanza era vuota, il letto – rifatto, immacolato – era deserto.
Pensò d’aver sognato, era stato tutto troppo incredibile, troppo vivido.
Poi sentì altre voci arrivare, di nuovo.
“E se lui rientra a casa prima? Che figura ci faccio?”
Voce di donna, vagamente familiare
“Ma dai, se ti dico che stiamo tranquille almeno fino alle cinque… ma poi scusa, ti pare che quel cretino abbandona il suo bell’ufficio con aria condizionata e niente da fare, per venire a schiattare in questo forno, che l’aria condizionata è una settimana che è rotta…”
Questa invece era sua moglie.
Le voci si avvicinavano, le due donne erano nella stanza, adesso. Nell’armadio, lui aspettava senza fare un fiato, vagamente inquieto.
“Scusami sai, ma è l’altra volta è stato così bello, quando mi hai invitato ho capito subito che intenzioni avevi, e questo momento non vorrei proprio sciuparlo…”
Le due donne erano sedute sul letto, ancora vestite. Di spalle, sua moglie, una camicetta di seta bianca, già sbottonata, aperta sui fianchi, il profilo del seno si indovinava sotto.
Di fronte invece l’altra: una donna più giovane, sui trent’anni, lunghi capelli neri scivolati sulla spalla, lo sguardo intenso.
Marina! Quella era Marina: la ragazza che abitava con il marito e i due figli piccoli nella villetta affianco alla loro. Si erano presentati arrivando, quando avevano traslocato, e con sua moglie erano diventate quasi subito grandi amiche,tanto da partire insieme due giorni prima per il mare: o almeno così credeva lui.
“Non hai caldo?”
la moglie allungo una mano, le dita scivolavano sui bottoni della camicetta, la ragazza arrossì, visibilmente eccitata.
“Tanto… sto impazzendo, mi sento tutta un bollore… ma che sarà ?”
L’altra si chinò ancora, le dita liberarono un bottone, poi un altro , poi un terzo… il seno della ragazza emerse, splendido e fiero, dai lembi ora spalancati della camicetta.
La donna allora si chinò ancora di più e cominciò a baciare quelle tette sode e rotonde, non eccessive ma tonde tonde (una terza, coppa B, probabilmente, pensò una parte della mente di lui). Le labbra si aprirono a mordicchiare prima un capezzolo, poi l’altro, tra i sospiri sempre più forti della ragazza, che premeva contro di sé il viso dell’amica.
Capezzoli grandi e turgidi, induriti dall’eccitazione prima, dal piacere adesso: violacei, circondati dalla areole appena più pallide, entravano e uscivano dalla bocca dell’altra, che con la lingua disegnava maliziosi cerchi concentrici, spirali inesorabili di leccate, avvolte fino alle punte deliziose di quel seno così sfacciato, provocante, leccate ritmate, gentili ma crudeli, ormai quasi dolorose per l’altra.
Crollò indietro sul letto, l’altra, quella giovane, miracolosamente lasciando nelle mani della donna la camicetta già inutile. Lei rimase a guardarla per un attimo, come studiando il da farsi. Poi si liberò della propria camicia, quasi con fastidio, con insofferenza, tornò a chinarsi per palparle e baciarle il seno, mentre armeggiava disinvoltamente con i jeans della ragazza, sfilando la cintura e sbottonando la patta, un bottone dopo l’altro, lentamente, senza fretta.
L’uomo dell’armadio, decisamente arrapato, seguiva la scena senza un fiato. Il pene di nuovo duro e rigido, lui aspettava gli sviluppi di là della persiana quasi ipnotizzato, accarezzandosi e rotolandosi lentamente l’asta da cima a fondo.
Sul letto la ragazza mugolava di piacere: la donna ormai le aveva sfilato i jeans e curiosava con due dita sotto l’orlo delle mutandine e nell’inforcatura del pube, cercando il piacere dell’altra, sul viso un sorriso di sfida, lo sguardo intento e determinato.
Poi con un gesto rapido, abbassò e sfilò gli slip della ragazza, e rimase per un istante a contemplarle la figa: quasi completamente depilata, solo un piccolo punto esclamativo di peluria, giusto sopra il Monte di Venere, aperta e bagnata, il clitoride già gonfio sotto il suo cappuccio, le dolci, grandi labbra spalancate per accogliere il piacere.
La donna si divincolò brevemente per liberarsi anche dei suoi jeans e delle mutandine, poi si tuffò, letteralmente, nel ventre della sua amica: cominciò a baciare la vulva, il clitoride, le labbra, scivolando con la lingua malandrina verso il perineo, l’ano, per tornare poi a galla, di nuovo labbra e lingua sulla fica.
L’altra gemeva e si dibatteva dolcemente, spingendo con le anche e premendosi contro il viso di lei, che leccava e baciava. E cominciò ad usare le dita, con dolorosa lentezza.
Nell’armadio, lui stava per esplodere: sentiva le pulsazioni del suo pene fin giù nei testicoli, pelosi e gonfi e caldi, impazienti di scaricare di nuovo il loro succo nella mano che, umida di sudore, scorreva sempre più veloce e sempre più su e giù.
La donna infilò – con grazia e cortesia – prima la punta, poi metà, poi tutto il dito indice della mano destra nella vagina della ragazza. Quella si spinse di nuovo e ancora,ritmicamente, contro la mano che la penetrava, la offendeva e la violava, ma ancora non abbastanza. Ne voleva di più, l’amica matura infilò un secondo dito tra le labbra congestionate e violacee, mentre l’altra mano carezzava e cercava l’ano tra le cosce, e poi un terzo dito, falangi falangine, falangette e tutto quanto dentro, e poi su, profondamente dentro e profondamente su, e poi giù, e poi dentro e poi fuori.
Mentre le dita superstiti, rimaste fuori dal gioco della caverna bagnata, accarezzavano chi il clitoride (quasi sul punto di esplodere, anche lui nel suo piccolo) chi le labbra gonfie di piacere, la donna si chinò a raccogliere i gemiti dell’amica, il viso stravolto di sudore, parole smozzicate e quasi inudibili, e poi un bacio, un lungo bacio profondo.
“Adesso… adesso… è il momento, prendilo, tiralo fuori… come l’altra volta, dai…”
Nell’armadio, dove il tempo si era fermato, dove la temperatura volava verso i quaranta gradi, dove il sudore che gocciolava era l’unico rumore, inudibile, dove solo due millimetri di curiosità ancora lo separavano da un orgasmo esplosivo, l’uomo agonizzava nell’attesa.
La donna allungo la mano libera, continuando con la destra a martirizzare la figa dell’amica, frugò in un cassetto, poi fece un largo sorriso.
La mano riemerse dal comodino stringendo un dildo, un sex toy più sofisticato della media: un doppio pene, gomma siliconica, un caldo viola fucsia, due aste morbide ma sode, due glandi ciechi ma robusti.
Allargando le gambe prese a masturbarsi con la mano sinistra, sempre continuando a infierire con la sinistra nel ventre della ragazza. Poi inserì dentro di sé, spalancandosi poco a poco la figa, un’estremità del dildo, spingendolo più su con una smorfia di piacere.
Si avvicino, sempre a gambe larghe, all’amica, incrociandone le gambe con le sue, per portarsi ventre a ventre, fica a fica, con il dildo in mezzo, già abboccato alle grandi labbra dell’altra.
La ragazza non si fece pregare, guidò la “sua” punta del dildo, facendola affondare rapidamente nella vagina ormai follemente lubrificata. Poco per volta riuscirono a sedersi vis a vis, le mani dell’una sul seno dell’altra, l’arnese fucsia – morbido e tenace – a tenerle assieme, a tenerle dentro.
Rimasero così per un lungo istante, infiocinate l’una contro l’altra, eccitate da morire e pronte al piacere, pronte all’orgasmo. Poi cominciarono ad abbracciarsi e tirarsi e respingersi, amplificando con le natiche i movimenti del dildo.
Non ci misero molto a venire assieme, a quel punto: gridarono, assieme, strabuzzarono gli occhi assieme. E assieme ricaddero indietro sdraiate sulla schiena, a gambe all’aria, i seni ballonzolanti, con quella proboscide violacea ancora ad unirle, tra le cosce sudate.
Questa volta il getto di sperma era stato ancora più energico, abbondante, gli era letteralmente scappato di mano, annaffiando parete e vestiti nell’armadio. Lui crollò contro il fondo di compensato, trattenendo all’ultimo momento un grido soffocato. Poi, stremato dall’eccitazione e dal caldo, cullato dai mormori riconoscenti delle due donne ancora sul letto, s’addormentò di nuovo.
La luce nella stanza non cambiava, il tempo passava ma quando aprì gli occhi per sbirciare tra le stecche della persiana erano sempre le tre di un caldo pomeriggio, il letto era perfettamente rifatto, la stanza era vuota, la stessa luminosità neutra filtrava dalle finestre.
Poi, di nuovo le voci si avvicinarono, questa volta l’altra era di nuovo una voce maschile, bassa e sonora, un italiano un po’ strascinato, imbastardito dalla marcata pronuncia francese.
“Sei sicura che lui non c’è pas? Tu comprend, ça serait embarassant, sarebbe… imbarazzante, no?”
“Cucciolo mio, ma ti pare che ti porto a casa mia e c’è pure mio marito? Se volevo un “affaire à trois” te lo dicevo chiaro chiaro, no? E, a proposito di affare ….”
Un movimento veloce, rumore di stoffa sfilata: di fronte al letto un uomo in piedi, nero come il carbone, una testa di capelli ricci, un orecchino al naso. E un cazzo enorme, già un po’ indurito tra le dita di lei, che lo soppesava con gesti noncuranti. Il membro arabescato di grosse vene serpeggianti, la cappella violacea, i testicoli penduli, come due bisacce piene.
“Non lo so… visto così non sembra mica niente di speciale…”
“Bien, mais tu sai quel che bisogna faire, pour qu’ilgrossisse… perché diventi grande, come piace a te… Ma non mi dirai poi che è troppo grande, per il gioco che vuoi fare tu, pas vrai, hein?”
La donna mollò di scatto il pene
“Troppo grosso? Guarda, solo per capirci bene io e te, ‘troppo grosso’ è una cosa che non mi sentirai mai dire… troppo grosso! Ma per chi mi prendi, per una verginella impaurita?”
“Bien, alors… sai cosa fare no?”
La donna si lasciò scivolare a terra, in ginocchio, già pronta ad adorare quel dio pagano della fertilità e del sesso. Poi cominciò, con pazienza da serpe, a far scorrere tra due dita il membro, guardando in sù, lo sguardo piantato in faccia al nero. Le dita correvano su e giù, di tanto in tanto lubrificate da un po’ di saliva, prima due, poi tre, poi tutta la mano, ad imprigionare morbidamente quello stecco nero carbone, mentre l’altra mano rotolava i testicoli tra palmo e dita.
Adesso l’uomo era eccitato, il membro ormai un pezzo di ferro bruciante, gli occhi febbricitanti. Offri il cazzo alla bocca di lei, semiaperta, le labbra tumide, già bagnate di saliva, offrì il suo pene pagano e lo affondo tra le labbra, nella bocca fin nella gola della donna. Lei alzò il viso e leccò, ingoio, salivò, succhiò, senza risparmiarsi, senza fermarsi nemmeno quando quello cominciò a mugolare.
L’uomo dell’armadio bruciava dalla febbre, bruciava dall’eccitazione: il vano angusto era saturo dei suoi odori, degli ormoni, la mente satura delle scene rubate per tutto quello strano, lunghissimo pomeriggio, si sentiva leggero, quasi lontano dal suo corpo. Ma stringeva nella mano sudata il suo pene, eretto, vigile, quasi pronto a liberarsi.
Sul letto le cose avevano preso un’altra piega: l’uomo nero aveva tirato su senza tanti complimenti la donna bianca, l’aveva spogliata di quel poco e l’aveva spinta sul letto, ribaltandola sulla pancia.
Prona, la donna aspettava, le cosce allargate, una lucida bava di lumaca colava dalla vagina, l’ano sembrava un frutto tropicale annidato tra le natiche.
L’uomo si leccò le dita, prima una poi due poi tre. Una alla volta le mandò a giocare, ad accarezzare quel frutto rosato e crespato: uno, due e tre si tuffarono oltre lo sfintere, allargandolo piano piano, mentre la donna ancora aspettava, respirando appena, sena un suono.
Il cazzo dell’uomo era alto e dritto, ancora lucido della saliva di lei. L’uomo accostò le gambe alle gambe, impugnando la sua lancia con una mano, con l’altra divaricando ancora le natiche. Poi cominciò ad entrare dentro di lei, dietro di lei.
Mentre la punta di quel pene enorme scompariva magicamente nel suo culo, la donna esalò un sospiro, quasi un rantolo, sforzando di rilassarsi ancora di più (muscolatura striata, pelvica e perianale, un buon controllo è essenziale per un buon coito anale), per accogliere quel membro duro ed esigente, che avanzava centimetro per centimetro nel suo retto, togliendole il fiato.
Poi con una mano, anzi, con la punta delle dita, cominciò a masturbarsi.
Nell’armadio le cose stavano rapidamente precipitando, di nuovo. Di nuovo il sangue congestionava il pene dell’uomo, di nuovo cercava di reprimere gli ansiti, di nuovo stava per esplodere.
Fuori il nero ormai spingeva sue e giù senza ritegno, l’asta scivolava dentro e fuori, i testicoli lambivano e vellicavano le grandi labbra, mentre la donna diteggiava sempre più furiosamente dall’altro lato, gemendo sempre più forte, ritmicamente, ad ogni colpo del nero un lamento felice. Un attimo dopo, l’uomo uscì del tutto da lei, rimase un istante immobile impugnando il suo cazzo, poi di colpo il getto, lo schizzo, la fontana. Il liquido seminale inondò la schiena di lei, dalle scapole in giù, getto dopo getto, mentre lei pure, al tocco tiepido di quel magico, sempre sorprendente, succo d’amore così abbondante, veniva ansimando.
Idem l’uomo nell’armadio: senza vergogna, senza consapevolezza, senza pudore, lasciò colare il suo sperma tra le dita, e, mentre gli amanti sul letto sussurravano, si addormentò.
Dopo un po’, minuti, forse ore, si tirò su a sedere, a sbirciare tra le stecche: come sempre stanza vuota, letto immacolato, luce immutata.
Istintivamente allungò le gambe per reprimere un crampo, urtò la cornice interna dell’anta: e l’anta si aprì.
Istupidito dal caldo e dalla stanchezza, l’uomo rimase per qualche istante immobile, senza capire. Poi spalancò l’anta e si tirò su, incerto sulle gambe, i peli sulle cosce che tiravano, incrostati di sperma.
Girò cautamente intorno al letto, aspettandosi chissà cosa e trovando il nulla fuori posto: lo scendiletto ben allineato al bordo della trapunta, la radiosveglia ancora spenta, ancora al suo posto, i libri ordinatamente impilati. Anche il suo lato del letto sembrava intonso, sembrava non essere stato minimamente coinvolto nella girandola di amplessi, capriole erotiche, giochi fallici e inculate varie. Come se nulla fosse successo.
Scese le scale esitante, guardandosi attorno come fosse su un pianeta sconosciuto, misterioso. Ma la casa era sempre lei, sempre vuota, e silenziosa, come quando aveva salito quelle stesse scale, cinque minuti o tre giorni prima, chi lo sa.
La doccia calda l’aveva rimesso al mondo, i getti dell’idromassaggio (soldi ben spesi) gli avevano restituito un po’ di tono. In cucina aprì il frigo tintinnate, si versò un succo d’ananas, per poi dimenticare il bicchiere a stiepidirsi sul ripiano.
Non riusciva a capire: come? Quando? Perché? Aveva sognato tutto? Possibile?
In quel momento sentì la chiave girare nella serratura, il bel portoncino di faggio si aprì per lasciar entrare lei: sua moglie, la panterona, la tigre da letto: la troia insomma.
Si alzò di scatto dalla sedia, d’impulso attraverso il soggiorno a lunghi passi, poi si fermò, improvvisamente scaricato, svuotato, davanti a lei.
“Ehi! Ma tu che ci fai qui a casa? Non dovevi essere al lavoro?”
“Lavoro da casa, in ufficio il capo non c’è….ma tu invece? Non dovresti essere ancora al mare?”
Come se nulla fosse, come se tutte quelle corse pazze sul lettone, su in camera, non ci fossero mai state: tranquilla, candida, quasi innocente.
“No, figurati, Marina s’è fatta venire un attacco d’asma che non ti dico, ieri abbiamo passato il pomeriggio al pronto soccorso di Gaeta e l’hanno imbottita di antistaminici. Stamattina stava meglio, è venuto Dario a prenderla e mi hanno riaccompagnato a casa…”
(una punta di rossore sulle guance di lei, ma poteva essere il caldo, l’affanno di tirarsi dietro il grosso trolley attraverso il giardino, poteva essere)
“Ma tu… sei stato a casa proprio tutto il giorno?”
(una certa inquietudine nella voce di lei, adesso)
“Come tutto il giorno, perché, che ore sono?”
“Sono le sei, le sei di pomeriggio amore. Ma non guardi l’orologio?”
(le sei! Quando era salito in camera erano le due, era rimasto in quell’armadio, accanto a quel letto, per quasi quattro ore)
“Non mi ero accorto che fosse così tardi. Si, comunque, sono stato a casa, tutto il giorno, con questo caldo poi, dove vuoi che vada?”
“E come hai fatto, povero caro, con l’aria condizionata rotta, tu che non soffri il caldo, in casa tutto solo?”
(stava giocando con lui, ma perché? Sembrava incerta se credergli o sospettare, ma sospettare cosa?)
“Ho lavorato, avevo un po’ di pratiche da chiudere… e poi….”
“E poi cosa?”
(ecco cos’era: lei pensava che lui – anche lui, cioè – avesse qualcosa da nascondere)
“Ho fatto qualche lavoretto in casa, cambiato lampadine, raddrizzato quadri, queste cose così…”
“Niente di speciale, quindi?”
“No, non direi….”
(adesso, penso lui, adesso)
“…ah si, su in camera, sai, ho provato a riparare l’armadio”
“l’armadio?”
“Si, l’armadio. Sai quell’anta che non rimane mai chiusa…”
“L’anta. Si, me lo immagino”
(adesso era seccata, quasi scontrosa)
“E ci sei riuscito?”
“Macché. Figurati che mi sono accovacciato per avvitare le cerniere e ci sono rimasto chiuso dentro…:”
(lei si fece attentissima, adesso)
“Dentro?”
“Si, dentro. L’anta si era completamente bloccata, con me dentro”
“E come hai fatto a uscire?”
“Dopo un po’ si è sbloccata da sola, ancora non so come mai”
“Dopo un po’?”
“Si, dieci minuti fa”
“E tu sei rimasto tutto il pomeriggio lì dentro?!”
(lei si lasciò cadere sulla poltrona, lui con calma si sdette di fronte, gli occhi negli occhi di lei)
“E non hai chiamato aiuto, non hai gridato, sei rimasto lì tutto il tempo….senza farti sentire?”
(visibilmente scossa)
“Si, è così. Faceva caldo, molto caldo lì dentro, ogni tanto mi assopivo per un po’”
“Ogni tanto. E il resto del tempo?”
(le tremava la voce)
“Il resto del tempo no, ero sveglio”
(lei lo guardava senza capire, aspettandosi una reazione diversa. Che non venne)
“E poi l’anta si è sbloccata, insomma si è riaperta da sola, giusto?”
“Si, esatto. Si vede che avevo visto abbastanza”
Il colpo – ben preparato – andò a segno: lei sobbalzò bruscamente, ma non replicò, non chiese spiegazioni, non offrì spiegazioni.
Dopo qualche istante lui si alzò, si diresse verso il bagno.
“Dove vai?” chiese lei con un filo di voce.
“Mi rifaccio una doccia, fa un caldo assurdo qui dentro, domani chiamo un altro riparatore”
“Ma… quell’anta, poi, l’hai riparata?”
“No, non l’ho riparata. Ho deciso che va bene così. E poi non si sta male là dentro, nell’armadio. A parte il caldo, voglio dire: si vedono le cose in un altro modo, dovresti provare anche tu….”
La doccia era accogliente, rilassante. Le pareti vetrate completamente appannate tagliavano fuori il mondo, il padellone su in alto annaffiava le spalle, l’acqua scorreva giù per la schiena, gocciolava in rivoli correndo sui polpacci, correva verso lo scarico.
Il suo cazzo, ancora indolenzito per il pomeriggio movimentato, s’allungava chissà perché di nuovo inturgidito tra le cosce muscolose. Lui (se) lo guardò ammiccando:
“Ancora? Non t’è bastato?” disse, parlando da solo.
Poi la porta scorrevole della doccia si aprì scorrendo dolcemente nelle guide, e sua moglie, la sua bellissima e molto troia moglie, molto troia e molto nuda, si infilò con lui sotto la doccia, stretta stretta a lui e al suo pene, improvvisamente così ingombrante e insolente.
by EDA64