Indovinelli Popolari Osceni

di Cigno

Quella che vi sto per raccontare è la vera storia di un popolo. Un
popolo, quello Siciliano, che vive tutt’ora in un mondo al confine tra
la realtà e l’immaginifico. Tra la verità e la bugia. Tra la
disillusione il sogno.

Potete contattarmi all’indirizzo cigno2017@gmail.com

I Siciliani percorrono la leggenda e la amplificano. La stimolano. La domano.
La storia della Sicilia è un po’ la storia degli Uomini che si credono
Dio. Dio è fatto a immagine somiglianza del siculo. Secondo i siculi,
almeno.
In Sicilia ha più importanza la cosa non detta rispetto a quella
dimostrata coi fatti. Questo è vero fin dai tempi di Federico II, lo
“stupor mundi”. Colui che ha toccato Dio e poi è diventato Dio. Il
siciliano è così. Ha toccato Dio e crederà di essere speciale per
l’eternità.

Quella che vi racconto io è una fiaba. Vera nella sua essenza e falsa
nella sua consistenza. La consistenza non è argomento di cui i Siciliani
si prìano (si vantano). La vera passione del Siciliano è  l’antefatto,
la circostanza, la cosa nascosta. Il dubbio, l’intesa, l’ambiguità.
La realtà? La concretezza? Tutte minchiate! Se vieni in Sicilia e gusti
un cannolo ca ricotta (di pecora, immancabilmente) non sei sazio, sei
“arricriato”, cioè ti sei rigenerato internamente. Ti sei rinnovato
spiritualmente.
Ogni cosa va a doppio binario con l’Altissimo. Il lavoro? Non esiste
lavorare, esiste “vuscàrsi u pani” [guadagnarsi il pane], il che per lo
più si dice quando fai qualcosa che porta vanto al tuo onore, onore di
donna, di uomo e di  perfino da picciriddu [bambino], e non solo un mero
guadagno economico.

Cionondimeno, tutto quello che trovate narrato qui è verità e bisogna
fidarsi, basta solamente che ognuno di voi ne estrapoli la verità che
più gli si addice.

Chi glielo doveva dire a Rosalia, donna umile ma tutta d’un pezzo, che
le presunte oscenità ricevute dal famoso storiografo Giuseppe Pitrè
erano in realtà profonde e illustrissime argomentazioni letterarie?
Chi glielo doveva dire alla signora Giovanna, che di anni ne faceva
cinquantadue, che l’esperienza spesso non basta per evitare che certi
fatti accadano?

State a sentire, provate voi a capirci qualcosa!

“Donna Giovanna, beddamatri!” disse Rosalia, infuocata e accaldata.
“Che successe, Rosalì?” rispose la signora Giovanna.
“Avete presente quel signore ben vestito, che viene dalla città?”
“Certo che ce l’ho presente, il caro Pitrè. Signore di tutto rispetto…”
“Ma quale tutto rispetto…donna Giovanna, il Pitrè è un Maniaco. Glielo posso giurare sulla tomba di mia madre!”
“Che ti capitò? Che ti combinò? Parla, figlia mia!”
“Ancora male mi sento… quasi mi viene da cadere per terra!”

Dopo che Rosalia si acquietò, si prese una bella tisana di acqua e
alloro che fungeva da panacea per gran parte dei malanni, e iniziò il
racconto.

“Tutto cominciò qualche stamattina. Ero al mercato per accattàri le
verdure che mi servivano per fare la caponata. La conoscete voi la
signora Violante? La moglie del Prefetto. Ebbene, noi lo sappiamo che è
una donna bella e per nulla dimostrante l’età che porta. Dite voi, e che
c’entra con tutto questo? Fatto sta che davanti al fruttivendolo Ella
si soffermò a comperare delle milinciane (la melenzana).
Stava quasi per pagare 3 lire al commerciante quando ad un certo punto
il Pitrè fece la sua comparsa e con fare molto gentile si tolse il
cappello e si inchinò salutando sia me che la Signora Violante.”

“E quindi, Rosalì? Che c’è di male? Una usanza molto garbata e per bene…!”
“Ma che cosa dite, donna Giovanna? Il guaio venne dopo!”
“E raccontate, ancora che ve la runziàte? (ancora tentennate?)”

“Ad un certo punto il Pitrè, sdisonorato, parlò e pronunciò delle oscenità in pubblico.”
“E che disse?”
“Eh…che disse? Non glielo saccio ripetere… troppo male mi sento…”
“Tu provaci, Rosalì, con me tutto si può dire.”
“Pronunciò queste esatte parole: Ronna Viulanti, cche natichi tranti,
cappeddu virdi e bistina viulanti!” (Donna Violante, con le natiche
sode, cappello verde e veste viola).
“Ah!”
“Capisce che porco ddu Pitrè infame?”
“Ma che dici, Rosalì, un suggerimento gli fece…!”
“Ma come, Donna Giovanna…? Un suggerimento? Le natiche? Iddu si riferiva al culo! Glielo dico io!”

Donna Giovanna posò una mano sulla spalla di Rosalia per rassicurarla.

“Rosalì. Queste cose tu non le capisci…sei ancora picciliddra. Il
Pitrè non voleva offendere la signora Violante… voleva solo suggerirle
come doveva scegliere le melenzane…”
“Non la capisco, signora Giovanna, non la capisco… come poteva essere un suggerimento la natica soda?”
“Vengo e mi spiego. La donna Violante è lei, la moglie del prefetto. Ella portava per caso il cappello verde e la veste viola?”
“Nossignora, non le portava!”
“E infatti, Rosalì. Quella Era la descrizione delle melenzane nostrane.
Le più belle. Quelle con cui si fa la migliore caponata di tutte. Devono
avere il colore viola, il cappello verde e se le tocchi devono essere
belle sode ma non troppo e manco troppo mosce. Mi sono spiegata?”
“Ah…. quindi il Pitrè voleva a suo dire consigliare la signora su quali melenzane acquistare?”
“Eh certo… grand’uomo quel Giuseppe Pitrè.”

Rosalia, qualche giorno appresso, pur essendo stata rassicurata dalla signora Giovanna, cercò di non pensare a quel fattaccio.
Eppure, le circostanze fecero in modo che un altro evento burrascoso le capitasse sulla via di casa.
Si ritrovò davanti una bancarella che vendeva libri usati. Era gestita
da un garzone di 15 anni che aveva scelto la cultura al posto della
raccolta delle olive.
Amante della lettura, Rosalia, non perse tempo e si immerse nella ricerca di titoli altisonanti e interessanti.
D’un tratto, Giuseppe Pitrè giunse alle spalle di Rosalia. Con fare
garbato e sempre impeccabile fece il suo inchino e tolse il cappello.
Rosalia lo taliò e con fare molto rispettoso, nonostante l’imbarazzo, replicò al saluto.
A quel punto il Pitrè parlò.

“La ma’ signura ccu li cosci stisi, stisi comu ru’ pampini ri rrosi, lu
gghiuvinieddu ca cci appizza ‘mprisi, cci appizza lu tiempu ca ci voli.”
(La mia signora con le cosce distese, distese come due petali di rosa,
il giovinetto che si cimenta e vi perde il tempo necessario)

Rosalia ammutolì e non seppe replicare. Era quasi presa da una strana
calurìa (uno strano calore) che la riempì fin dentro le sue intimità.
Corse subito dalla signora Giovanna per raccontarle il misfatto e lacrimante e quasi addolorata volle conforto.

“Ma che sogni ti fai, Rosalì?” disse Giovanna.
“E che poteva significare, donna Giovanna? Lui si riferiva alle mie cosce, sicura al cento per cento ne sono, glielo giuro!”
“Ma quando mai, tu ti sei fissata col Pitrè! Che era per caso la bancarella di Ginuzzu?”
“Si, idda era.”
“E quindi facile…! Il Pitrè ti stava confidando che quel bravo
picciotto, figlio di contadini ignoranti, era riuscito a trovare un
mestiere bello da amante della cultura!”
“E che ci trase il piccolo Ginuzzu?”
“Vengo e mi spiego: Il giovinetto che si cimenta è Ginuzzo, lui legge
assai libri. Ha una cultura vasta pur avendo solo 15 anni! Le cosce
distese di cui parlava il Pitrè sono le pagine aperte del libro, che se
ricordi bene ricreano la forma di due petali all’interno delle rose. Ora
capisci quanto sei minchiona, Rosalì?”
“Ah quindi il Pitrè non ce l’aveva con le mie cosce?”
“Il Pitrè è gentiluomo. Se pensa alle tue cosce è solo perché tu sei sdisonorata e gliele fai vedere!”
“Ma non lo farei mai, donna Giovanna!”
“E infatti ormai te lo sogni la notte, vero?”

Era vero. Rosalia ormai ci pensava la notte. Non riusciva a dormire. Era
costantemente sovrappensiero. Quel Giuseppe Pitrè, storiografo che
viene dalla città, la ossessionava nel sonno.

Una mattina che era estate, Donna Giovanna si mise a raccogliere Fichi
d’India. Decise di portarsi la giovane Rosalia per insegnarle come si
fa. La tradizione vuole che i fichi d’india vanno colti da mani esperte e
trattati con rispetto, altrimenti le spine sono inevitabili.
Giovanna era esperta e sapeva come evitare le punture. Con la maestrìa.
Da lontano un signorotto ben vestito apparve, era Pitrè.
Rosalia ammutolì e cerco di tirare la veste di Donna Giovanna, come ad avvertirla.
Giovanna si girò, vide il Pitrè e molto cordialmente lo salutò.

“Salve, signor Pitrè, tutto bene?”
“Benissimo, Signora Giovanna, Ahi! Ahi! Gesù! Spogliati ca ti vasu!”
(ahi! ahi! Gesù! spogliati che ti bacio)
“Ah ah ah! Signor, Pitrè, Gentilissimo, D’altronde noi sempre buona
qualità. Appena finisco con questa gliela faccio assaggiare…!”

Rosalia era sconvolta. Non poteva credere a quello che aveva appena sentito.
“Donna Giovanna lei mi vuole forse ammazzare? Lei mi vuole vedere morta e
mandata al creatore? Quello scambio di sconcezze a cosa era dovuto? Lui
le chiede di spogliarsi e lei acconsente?”
“Ma no, Rosalì, ancora con queste invenzioni della tua testa malata? Il
signor Pitrè, poverino, c’ha visto cogliere Fichi e mi ha chiesto di
fargliene assaggiare uno!”
“Ma che dice, Giovanna? Il fico?”
“Eh certo…che pensavi, la fica?”
“Ohmmioddio, che oscenità, donna Giovanna…”
“Sei troppo delicata, Rosalì. Te l’ho spiegato mille volte: Il fico
d’india è camurriusu (tenace, coriaceo), per mangiarlo bisogna prima
“spogliarlo” della scorza, altrimenti ti punci! (ahi! Ahi!) Dopodiché si
può mangiare. Ora hai capito?”
“Quindi… il Pitrè voleva “spogliare” i fichi d’india?”
“Eh certo… lui buongustaio è. Gli ho detto che uno dei più dolci e maturi è conservato per lui… così è contento.”

Il Pitrè era stimatissimo in quella comunità. Tutti lo volevano bene e tutti lo rispettavano.
Rosalia ormai aveva una malattia. Tutto quello che usciva dalla bocca di
Giuseppe Pitrè, stimato storiografo, si tramutava per lei in oscenità.

Una sera, che era notte già inoltrata, Rosalia si ritrovò ad andare a messa da sola.
Si ritrovò nella chiesa in solitudine, accese un cero e recitò una preghiera.
Nel momento di riporre la scatola di fiammiferi lo udì, vicinissimo, seduto nella panca dietro di lei. Era Pitrè.

Disse: “O scuru, ‘o scuru, mu stricu ‘nto muru” (nel buio fitto, me lo strofino al muro)”

Rosalia era di nuovo avvampata. Non sapeva se mollare un ceffone sul
volto del disgraziato oppure  correre via. Tuttavia era da settimane che
sentiva uno strano senso di calore partire dal centro dell’inguine. Un
disagio che non era disagio. Era lì perché sentiva che doveva esserci.
Voleva che non ci fosse. Ma c’era. Un calore umido. Bagnato. Si era appena scordata la preghiera che doveva fare.

Iniziò la messa. Cercò di distogliere i pensieri e iniziò a pregare.
Teneva in mano il Rosario. Chiuse gli occhi e recitò la formula sacra.

Sentì Pitrè che da dietro sussurrava: “Un vecchiu, a menzu li gammi,
longa l’avia e la muvia” (un vecchio, in mezzo alle gambe, lunga ce
l’aveva e la muoveva)

Lei era presa ormai da un calore indomabile. Stava prendendo fuoco con
tutta la veste. Non poteva stare in quel modo… non dopo quelle parole!
Decisa a spostarsi, si alzò e si parò in prima fila, davanti il vescovo
che giusto quella sera cantava messa al posto del parroco malato.
Egli si capiva che era un vescovo, teneva infatti una quantità
incredibile di orpelli e gioielli al volto, al collo e alle braccia,
nonché degli anelli opulenti e sfarzosi.
Rosalia capì che quello era il peso della devozione. Non poteva essere altrimenti…
Non fece nemmeno in tempo a finire quella santa riflessione che Pitrè si avvicinò e le si sedette accanto.

Egli a quel punto, non curante del fatto che Rosalia tremava tutta – e non certo per il freddo – , sussurrò:
“Monsignori l’avi grossu, lu Papa cchiù di cchiù, a li fimmini cci piaci: si lu mettinu a tri a dù”
(Monsignore l’ha grosso, il papa ancora di più, alle donne piace e se ne mettono due o tre)

Rosalia guardò dritta negli occhi del Pitrè. Ormai la vampa era incontenibile.
Lo prese e si posò la mano dello storiografo in mezzo alle cosce. Sfregò
con forza, davanti a tutta la messa. Era quasi indemoniata.
Pitrè non si mosse. Non parlò. Era ammammaloccuto (shoccato).
Rosalia si alzò e tirò con sè lo storiografo. Se lo portò all’ingresso, dietro una delle colonne.

“Signor Pitrè, mi tocchi. Non ce la faccio più.”
“Signora Rosalia, ma perché?”
“Lei ha voluto tirare fuori il diavolo che c’è nelle mie carni! Se lo prenda…è tutto suo!”
“Ma non è cortese…” Disse Pitrè mentre inesorabile palpava le morbide mammelle di donna Rosalia.
“Mi dica che sono ignobile, che sono fitusa (sporca), che sono sdisonorata. Così voglio essere!” replicò lei.

Mentre diceva tutte queste sconcerie, afferrò il cavallo del Pitrè e lo
stritolò così forte da far emettere un grido allo storiografo.
Il vescovo taliò a distanza e chiese “Che andate facendo, voi laggiù?”
Il Pitrè si pietrificò. Rosalia era ormai una assatanata.
“Niente, vescovo, continui! Mi sono sentita male e il signor Pitrè mi dava una mano a ricompormi!”

Si strusciò il culo sul Pitrè. Si fece toccare tutta. Si toccava con le
sue stesse mani che fino a prima toccavano altre sacralità.
Si tolse per sempre la serpe che la divorava da dentro. Si lasciò andare in un grido quasi malefico.

“Signora Rosalia! La prego!” Disse il pitrè quasi in procinto di scoppiare.
“Signor Pitrè… lei è un porco!” disse Rosalia.
“Ma io… Ma io!” E il Pitrè venne, dentro i pantaloni.

Rosalia avvertì il silenzio. Guardò verso il vescovo, sconvolto, si ricompose e scappò a gambe levate.

La febbre. La tremenda febbre che durò per quattro giorni e quattro notti.
Donna Giovanna la accudiva ogni sera. Usava i panni umidi e le coperte pesanti.
Rosalia, appene ebbe le forze sufficienti per bere e mangiare, riuscì a pronunciare le prime parole:
“Donna Giovanna, che ne è stato del Pitrè?”
“Lascia stare figlia mia. Non è più un problema tuo.”
“Ma dov’è andato? Che ne è stato di lui? Non è venuto a trovarmi?” Chiese lei, ancora agonizzante.

Donna Giovanna raccontò i fatti per come si svolsero. Il Pitrè, per
l’incresciosa vicenda svoltasi durante la messa del vescovo, rivolse i
suoi omaggi a Donna Giovanna con gli auguri di guarigione nei confronti
di Rosalia e partì, senza mai più metter piede in paese. Tutti sapevano
che aveva molestato una giovane donna in luogo sacro e tale onta non
poteva essere gestita altrimenti.

“Ma Donna Giovanna, in verità lui non mi toccò mai: fui io stessa presa
dal demone a seguito di quelle sue oscene parole….che mi lasciai
andare in un terribile atto di sconceria…”
“Cara… dolce e povera Rosalia. Io te l’avevo detto che non dovevi farti entrare in testa quelle sporcizie. Te lo dissi o no?”
“Lo so, donna Giovanna, ma le sue oscenità erano come un fuoco acceso
sotto di me. Non potevo contrastarle. Perché ha voluto tentarmi in
questo modo così perverso?”

Giovanna, allora, che di anni ne aveva 52 e tanta esperienza, la guardò con teso sguardo ammonitore.
“Durante questi giorni in cui la febbre ti faceva delirare, hai ripetuto
tutte le oscenità che pensi il Pitrè ti abbia rivolto…. te le
ricordi?”
“No….non ricordo proprio nulla…”
“Bene. Te le spiego io. Hai acceso per caso un cero in chiesa?”
“Si… lo accesi.”
“Bene. E che si fa per accenderli? Cosa è che Si strica nel muro e piglia foco? L’hai capito,Vero o no?”
Rosalia ci pensò su. ‘o scuru ‘o scuru, me lo strofino al muro.
“Il fiammifero, donna Giovanna?”
“Per l’esattezza. Poi che hai fatto, hai pregato il Rosario?”
“Si, donna Giovanna, l’ho fatto.”
“E per caso come è fatto un Rosario? Non è forse una lunga corda che viene mossa continuamente durante la preghiera?”
Rosalia era scandalizzata. Lunga ce l’aveva, e la muoveva.
“La corona del Rosario… oh no, Donna Giovanna… a quello si riferiva?”
“Per l’appunto. E infine… quanti gioielli teneva il vescovo?”
“Tanti, donna Giovanna, ma questo che c’entra?”
“C’entra, c’entra. Rosalì. Lo sai a che servono? A fare capire la differenza tra un papa e un vescovo.”
Rosalia, a quel punto capì. Monsignore ce l’ha grosso, il papa anche di più.
“L’anello. Donna Giovanna… L’anello…”
“Brava, Rosalì! Ci arrivasti finalmente! E gli anelli di solito chi li mette?”
“La donna…” rispose Rosalia.
“Appunto…. anche più d’uno… ogni tanto due, ogni tanto tre. O no?”

Rosalia era muta. Non voleva più uscire di casa. Pianse e poi si riaddormentò.
Donna Giovanna, che era persona di cuore, sapeva che quella era stata una lezione importante per la giovane.
In paese la storia durò da natale a santo Stefano, cioè a dire che tutti presto si dimenticarono della faccenda.

Il povero Pitrè venne ritrovato mesi dopo in una fossa comune, nelle
campagne lontane. Derubato e ammazzato con un singolo colpo di lupara.
La sua gentilezza venne ricordata dai più come una benedizione riservata a pochi.

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