L’ascensore
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Capitolo 1 - L'incontro
Uscita dall’auto, raccolgo tutte le mie cose, le cartelline rigonfie di documenti, la borsa e le chiavi dell’ufficio che ho sbattuto sul sedile anteriore vicino al posto di guida. Il cellulare squilla.
Maledizione dove diavolo è, penso, mentre mi affretto a cercarlo, facendo scivolare fogli stampati da dentro una cartellina di plastica trasparente. Maledizione ancora. Impreco, come solo una donna che cerca di tenere in mano ciò che non potrà mai starci, sa fare.
I fogli ormai sono in caduta libera e se ne vanno a spasso per l’auto, mentre tento di rimanere in bilico sui tacchi da dieci centimetri che ho deciso di indossare quella mattina e mentre il vestito attillato e corto di maglina di cotone decide di salire, proprio mentre dietro di me sta passando qualcuno.
Impreco ancora.
Impreco contro di me e la mia mania di vestirmi sexy-elegante quando ho appuntamenti importanti con dei clienti. Potevo mettere un paio di pantaloni mi dico, irritata con me stessa. Il telefono smette di squillare esattamente nel momento in cui riesco a localizzarlo, in fondo alla borsa, sotto uno strato archeologico di cose inutili. Decido di spegnerlo, perché sono sicura che suonerà ancora proprio nel bel mezzo della riunione.
Raccolgo i fogli uno per uno, e li rimetto nella cartellina trasparente e la ficco dentro un’altra, provvista, questa, di alette ed elastico. Le cartelle sono parecchie e le tengo con il braccio destro contro il mio tronco, ci appoggio sopra le chiavi dell’ufficio, non so perché, visto che qua non mi serviranno.
Anche il cellulare finisce sopra le cartelle in un equilibrio precario. Invece la borsa va sulla spalla destra, ripiena di altri documenti, che potrebbero scivolare fuori in ogni momento.
La cosa difficile è staccare le chiavi dell’auto dal quadro per chiuderla, ma alla fine riesco a fare tutto senza far cadere altre cose, ma infuriandomi perché sento la stoffa del vestito salire sulle gambe. Mi avvio e sono all’interno del grattacielo, ho un appuntamento al trentesimo piano.
L’atrio è affollato, mi avvio verso gli ascensori, ma guardandomi intorno non capisco quale lettera dell’alfabeto ferma al piano dove devo andare io. Chiedo in portineria e mi indicano l’ascensore giusto.
Una folla davanti le porte. Quando queste si aprono, una folla uguale a quella in attesa lascia l’ascensore e io mi chiedo come diavolo facevano a starci dentro tutti quanti. Sono incastrata tra le persone, faccia alla porta. Non mi capacito di come abbiano potuto mettere un’ascensore così lenta in un grattacielo, già mi sto rompendo. Qualcosa tocca il mio sedere. Lo sfiora. È una mano, lo capisco. Non riesco neanche a voltarmi per capire chi è. Un alito caldo sul collo è più vicino di altri.
Una voce di donna. “Lasciaci fare e non ti voltare.” Non so perché ma quella voce mi mette addosso dei brividi che vorrei non avere. Sento la stoffa alzata e una mano che delicatamente accarezza le mie cosce, sento le unghie che sfiorano leggermente la pelle. Ma che cosa voleva dire con ‘lasciaci?’. Le sue dita accarezzano la stoffa sottile del perizoma bianco. Ho un sussulto. Un dito solitario insiste ad accarezzarmi, ora più audacemente. Struscia. Comprendo d’un tratto la situazione.
Mi sto eccitando e sono su un’ascensore piena di persone, dovrò levarla quella mano da sotto il mio vestito, non posso lasciare che mi faccia questo, soprattutto qui, in mezzo a tutti. Invece la lascio fare, come la sua voce mi ha detto. Lascio che due dita accarezzino ora il pizzo.
Un’altra mano. Questa è di un uomo, la riconosco da come mi tocca la natica e la spreme. Lei a sinistra e lui a destra, aprono la via e la mano di lui la percorre dritta fino alla rosellina che adesso è esposta, non più celata dalla carne delle natiche. Il pollice di lui preme. La mia reazione stupisca anche me, spingo e lascio che entri. Lei s’infila sotto le mutandine e raggiunge il mio sesso che ormai segue i miei istinti. Lui si muove dentro. Lei accarezza, cerca il clitoride e comincia un gioco di tocchi e carezze. Un’unghia sembra essere divenuto il suo strumento preferito di tortura e piacere. Lui esce, ma solo per sostituire il pollice con due dita, che affondano dentro di me, non in maniera forte, ma decisa, fino in fondo.
Mi vergogno di ciò che sta accadendo. Sento le vampate che salgono al volto e il mio sguardo è fisso sopra le porte dell’ascensore, dove un display indica a quale piano si trova. Siamo solo al terzo, è passato solo un attimo, ma a me sembra già un’eternità. Con la coda dell’occhio scruto le persone attorno a me, sono tutti intenti a fare qualcosa: chi manda sms, chi sembra assorto nei propri pensieri, molti semplicemente sono occupati a fissare il display, come me, oppure le porte dell’ascensore. Le due dita si muovono e l’unghia della tortura gioca avidamente.
Il piacere sale fino alla gola, ma devo trattenerlo lì, non posso permettermi di lasciarmi andare dentro quest’ascensore. Non qui, penso. Sento che i capezzoli stanno premendo contro il reggiseno e vogliono uscire, così come i seni, ma: non qui, mi ripeto. Mi sento languire in un lago, sento che se loro continueranno finirò col farlo, avrò un orgasmo in ascensore. Non riesco neanche a fermarli, è una situazione dalla quale non so come uscire o, probabilmente, non ne voglio uscire. Il display segna il venticinquesimo piano. Le dita affondano ancora, penetrano in fondo.
Lei si prende gioco di me, polpastrelli che prendono il mio piacere tra di essi e lo conducono dove vogliono loro. Mi rendo conto di essere sudata e il display segna il numero ventotto. Le mani, le loro mani, quelle non impegnate, fanno scendere il mio perizoma sulle cosce. È questione di secondi e sento un rumore di forbici: le mutandine cadono a terra. Piano trentesimo. “Esci senza voltarti. Domattina qui alla stessa ora. Ascensore D.”
Esco dall’ascensore. Sconvolta dall’accaduto. Sono eccitata, sudata, tremante e senza mutande. Un bel modo per iniziare una riunione con dei clienti.
Capitolo 2 - L'ascensore D
Confusione.
Ecco qual è la sensazione che più di altre mi possiede. Una dopo l’altra le immagini della mattina si presentano davanti a me, scorrendo ripetutamente come in un trailer, la mia fantasia s’inerpica su vette mai viste, riuscendo a farmi vedere dal fuori quello che era successo. Un nugolo di sensazioni forti mi prende, mi strizza, mastica e getta nell’oblio della curiosità.
Che cosa sto pensando? Davvero mi sto proponendo di tornare lì, come mi ha chiesto? A pensarci bene, la voce di quella donna non aveva un tono di richiesta; sembrava piuttosto imperativo, come se mi stesse ordinando di tornare lì e anche quando e a che ora. Confusione e subbuglio. Le immagini scorrono veloci, vedo il film di me stessa in quell’ascensore, l’unica persona a fuoco. Tutto il resto sfocato. Mi sorprendo eccitata, curiosa di scoprire come andrà a finire, che cosa ha o hanno in serbo per me e, soprattutto, chi è?
Ascensore D. Mi chiedo, dove è l’ascensore D, non l’ho mai vista in quel grattacielo. Mi aggiro per la hall e vago con lo sguardo, cammino su quei tacchi alti e mi chiedo se loro mi stiano guardando. Oggi ho messo addosso un tailleur nero, con sotto una camicetta bianca. Non so perché, ma volevo sembrare più professionale, chissà poi perché. Vago per i corridoi larghi del piano terreno, mi guardo in giro come una cretina, cercando uno straccio di cartello che mi indichi dove cavolo è quest’ascensore D. Sembrerebbe facile, l’ascensore D dovrebbe trovarsi dopo il C, ma non è così perché il C è in un corridoio cieco, niente oltre.
Ed ecco che così ho girato i tacchi e mi sono diretta dalla parte opposta del grattacielo, sulla sinistra. Ecco che sul corridoio principale si intersecano una marea di altri corridoi più stretti, qui gli ascensori hanno i numeri e non le lettere ed io sto cominciando a innervosirmi, sta per venire tardi e vorrei essere puntuale. Puntuale per cosa? Mi chiedo all’improvviso e la mia personalità nascosta risponde: puntuale perché ti è stato ordinato di essere qui a un’ora precisa. Lascio correre, abbandono la mia personalità nascosta che mi ha fatto essere qui, quella che forse dovrei tenere più a bada e non lasciarle fare tutto ciò che vuole, come in questa occasione.
Finalmente ecco un cartello direzionale per l’ascensore D. È in fondo al corridoio grande, poco prima di girare l’angolo. Uno di quei cartelli che uno direbbe sia uscito dalla hall di un hotel a sette stelle. Pedana e asta in ottone, tanto lucidi che ci si può specchiare dentro, cordone decorativo attorno, color bordeaux e porta cartello anch’esso in ottone lucidato. Mi sento stranita. Seguo il cartello e il corridoio si restringe sia sulla destra sia sulla sinistra, diventa quasi un budello stretto e alto. Continuo a camminare, anche un po’ di fretta, vista l’ora e arrivo in un minuscolo atrio, dove trovo una guardiola di portineria. Un uomo alto e allampanato è in piedi sulla porta, veste una livrea nera e bordeaux con tanto di cappello. Sono ancora smarrita. Mi avvicino per chiedere informazioni.
«Mi scusi io starei cercando l’ascensore D. Può indicarmi dove devo andare?»
L’uomo mi guarda, poi si piega all’interno della guardiola e consulta un blocco con dei fogli.
«Certamente. Prima svolta a destra lo trova lì.»
«Grazie mille, credevo già di avere capito male. Questo posto è un labirinto.»
L’uomo accenna un sorriso, mentre io mi accingo a proseguire.
«Signorina, un attimo. Venga.»
Che cosa vorrà mai, mi chiedo, mentre faccio per l’ennesima volta inversione di marcia e torno indietro.
«Sì, mi dica. C’è qualche problema?»
«Oh no, per nulla. Vede, però la Signora mi ha detto di farle lasciare qua il suo cellulare e di prendere questi.» Mi dice, mentre mi porge un cassettino di plastica in cui si trovano un altro portatile e un auricolare singolo dalla forma molto aggraziata, di quelli che si agganciano all’orecchio.
Rimango interdetta e comincio a balbettare.
«Ma…ma, devo lasciare qua il mio telefono?»
«Evidentemente sì.» Fa il portinaio, continuando a presentarmi il cassettino «Così mi è stato detto di dirle.»
Poi non un fiato in più. Io sono stralunata. Ma che diamine vuole fare questa? La mia personalità nascosta mi dice di non farmi troppe domande, mollare il mio telefono lì e prendere quello nel cassettino e mettere l’auricolare. Così faccio e poi proseguo per l’ascensore. Una bella D stampata sopra la porta, la identifica, non posso sbagliare. Pigio il pulsante e l’ascensore è già al piano, le porte si aprono. È deserta. Entro e le porte si chiudono dietro di me.
«Sei in ritardo.» Afferma la voce della donna dall’auricolare. La riconosco immediatamente.
«Sì, scusi.» Rispondo, guardandomi attorno per capire se devo pigiare qualcuno dei pulsanti.
«Piano ventinove.»
Pigio e l’ascensore parte.
«Come dicevo, sei in ritardo. Levati il reggiseno e buttalo in un angolo.»
«Ma perché?»
«Perché sei in ritardo e perché l’ho deciso io. Ti basta?»
«Va bene.»
Armeggio con il gancetto dietro la schiena, dopo essermi tolta la giacca. Sgancio il reggiseno e come mi ha insegnato anni fa la mia mamma, riesco a sfilarlo senza neanche levarmi la camicetta. Indosso nuovamente la giacca e butto il reggiseno in un angolo dietro di me.
«Ora voltati e mettiti faccia all’angolo. Proprio dove hai buttato quel pezzo di biancheria inutile. Stai ferma e non ti voltare mai. In silenzio.»
Io mi giro e faccio come mi viene detto. Penso che d’altra parte sono sola qua dentro, non come l’altra volta in mezzo alla folla. Ficco la faccia nell’angolo e rimango in piedi eretta. Mi accorgo di essere già mentalmente eccitata.
Capitolo 3 - Il Colloquio
La cabina sale lentamente e un ‘dlin’ testimonia il passaggio di ogni piano. La voce della donna sussurra nell’auricolare, suadente e sensuale.
«Non mi piace il tuo outfit di oggi, non ti si addice. Dovremo modificarlo leggermente.»
Quando il campanello rivelatore suona due volte, l’ascensore si ferma. Le porte si aprono e sento dei passi: qualcuno sta entrando.
Rumore di tacchi alti sul pavimento della cabina.
L’istinto mi porta a tentare di voltarmi, ma la voce della donna mi ferma:
– Faccia nell’angolo. Stai ferma.
Come se qualche improbabile comando subliminale mi fosse stato impartito, torno a fissare il punto dove due delle paratie della cabina si uniscono.
Mi ordina di chiudere gli occhi e lo faccio, mentre ricominciamo a salire. Sento sul mio collo l’alito di una delle persone che sono salite; non una parola, ma la donna continua a parlare.
– Come ti dicevo, non hai scelto un abbigliamento adeguato per questo appuntamento. Un tailleur? Pensavi di avere un incontro con il tuo capo? Ora la mia segretaria rimedierà al tuo errore.
Mi sento quasi umiliata da questa affermazione: avevo indossato qualcosa di elegante, qualcosa che pensavo potesse piacere, intrigante, ma elegante.
Questo almeno credevo, ma evidentemente la donna dell’ascensore non è d’accordo. Chissà che cosa desidera che indossi, chissà dove andrà a parare il suo gioco.
Certo è, che questo suo gioco al gatto e il topo mi eccita, senza una ragionevole logica.
Sento afferrare la gonna del tailleur, la stoffa tirata e mi accorgo che la cucitura laterale cede e si strappa, la pelle della coscia rimane esposta, sempre più su, mentre il rumore di stoffa strappata continua a rimbombare nella cabina.
A metà della coscia immagino, credo e spero che si fermi, invece continua, quasi a sfiorare l’elastico delle mutandine.
La prima emozione che si impadronisce di me è la rabbia; ma lo sa quanto costa questo tailleur? Come si permette di rovinarlo?
Poi poco alla volta, secondo per secondo, l’eccitazione si insinua nella mia rabbia e alla fine diventa un’emozione unica, qualcosa di nuovo, un senso di umiliazione misto a eccitazione e a tormento per ciò che sta succedendo; quasi si fa strada dentro di me anche un senso di angoscia, per non essere in grado di controllare la situazione, ma la costante che mi stupisce di più, è questo senso di eccitazione che provo, che amalgama tutte le altre sensazioni ed emozioni.
La sua segretaria profuma di sandalo, la mia coscia percepisce le sue dita come lunghe e affusolate, quando appoggia leggermente le unghie sulla pelle, capisco che sono squadrate sulla punta.
Le sue dita vanno sull’interno della mia coscia, ormai libera dalla stoffa della gonna, si arrampicano sul mio inguine e toccano la stoffa delle mie mutandine bianche, lì dove tra l’ano e la vagina esiste un territorio usualmente poco esplorato.
Un polpastrello massaggia quel punto delicatamente, in maniera oserei dire oscena, improvvisamente la lingua sul collo, poi dietro all’orecchio, sento che è appuntita e mi eccita.
Poi le dita di entrambe le mani sulla stoffa della mia camicetta, giocano sui seni per un po’, dunque le unghie stuzzicano i capezzoli e io mi sento imbarazzata, mentre questi si induriscono e il mio corpo desidera continuare ad essere toccata.
Il corpo della sua segretaria è ora appiccicato alla mia schiena, posso sentire i suoi seni, la sua pancia, le sue gambe.
Le unghie continuano la tortura, pizzicano leggermente, sfiorano e si divertono sui miei capezzoli, attraverso la stoffa.
Poi indice e pollice prendono il primo bottone, lo torcono e lo strappano via dalla stoffa e poco dopo anche il secondo ha lo stesso destino.
Le sue dita sull’elastico delle mutandine, lo allontana leggermente dalla pelle e lascia cadere dentro i due bottoni.
– Non perderli.- La voce è quella della segretaria, che mi ha sussurrato questa frase all’orecchio.
Non me l’aspettavo, avrei detto che avrebbe parlato sempre e solo la donna per cui lavora.
È una voce pastosa, giovane, elettrizzante ed erotica, molto sexy.
A quelle parole, sarà anche per il tono e l’inflessione, il modo in cui modula il suono, il mio corpo vibra.
La segretaria mi accarezza le natiche, spinge la stoffa delle mutandine tra di loro, quasi arrotolandola.
Sento i due bottoni tra me e la stoffa, la cosa mi sta eccitando e io me ne sto vergognando, non voglio eppure è così.
Difficile spiegare la sensazione che si prova quando sei sicura di non volere una cosa, ma la stessa ti attrae in modo inequivocabile e non riesci quasi a farne a meno.
È un tormento, ma da questo non sei in grado di distogliere il pensiero e la voluttà fa sì che tu lo desideri , almeno tanto quanto tu non lo voglia.
È qualcosa che ti incide la mente profondamente e ti lascia sospesa in un limbo di pensieri cui non riesci arrivare a capo, un’emozione che non conosco e che faccio fatica a controllare, anzi, non controllo per niente.
Lascio che vaghi per il mio cervello e la mia mente e che dilaghi e si impossessi di me, non so come fermarla, mi sento inerme.
L’ascensore si ferma. Sento il corpo della segretaria staccarsi dal mio e il rumore dei tacchi allontanarsi.
– Ora torna giù.- Ordina la voce della donna nell’auricolare.
Io schiaccio il pulsante 0 e l’ascensore riparte verso il basso.
Continuo a non capire le mie sensazioni.
Più penso, meno riesco a venirne a capo, mi sento confusa e frastornata, ma qualcosa si fa strada dentro i miei pensieri, sento un fremito e desidero quasi che succeda ancora.
L’ascensore si ferma al piano terra.
– Esci e vai a destra, troverai i bagni, entra lì dentro.- Nessun’altra spiegazione.
Ma perché faccio quello che mi dice? Bella domanda mi rispondo, non lo so neanche io.
Faccio come mi ha detto ed entro nei bagni.
Non sono bagni schifosi come di solito si trovano in qualsiasi parte tu vada, oserei dire che sono eleganti, ci sono anche un paio di sedie, apparentemente scomode a vedersi, ma solitamente non si trovano.
I lavandini sono ovali e con grandi specchi sopra di loro, ci sono solo tre cubicoli.
– Vai a un lavandino e guardati allo specchio.
Mi avvicino timorosa di vedere la mia immagine.
Il viso è rosso, sarà per quello che è successo nell’ascensore o perché mi vergogno, forse più la seconda ipotesi che la prima, ma in ogni modo è rosso. La camicetta, priva di bottoni, si apre sui seni e si vedono chiaramente i capezzoli ancora duri appena coperti dalla stoffa.
Mi rendo conto che il rosso si sta espandendo sul mio viso, mi allontano per guardare come è conciata la gonna e capisco che ad ogni passo la mia coscia esce dallo spacco creato dalla segretaria e tutto questo mi fa arrossire ancora di più.
Certo non è un’immagine brutta, mi sento molto sexy e desiderabile, ma ho sempre creduto che questo modo di apparire, fosse più indicato per una cenetta intima, magari a casa e neanche in pubblico.
Più penso e più mi guardo, più la mia vergogna sale e la mia confusione sul perché sto facendo tutto questo aumenta.
– Ora ci sono due possibilità.- Dice la donna nell’auricolare.
Io non so se e come risponderle.
Non ho idea di quali possibilità stia parlando e so che lei sente la mia esitazione dal mio respiro.
Continuo a guardarmi allo specchio e vedo i miei capezzoli indurirsi ancor più, mi sento elettrizzata, come intrappolata in questa gabbia di sensualità e lussuria da cui non so come uscire.
A essere onesta non so nemmeno se voglio uscirne, almeno in questo momento.
Poi la voce della donna mi risveglia dai miei pensieri.
– Le due possibilità sono: torni dal portinaio, lasci questo telefono lì, ti riprendi il tuo, vai a casa e non ci sentiremo e non ci vedremo mai più; oppure torni dal portinaio e lasci anche le chiavi della tua auto, tieni questo telefono e il tuo lo tengo io ancora per un po’.
Esci così come sei e vai a casa camminando e manderai un messaggio sull’unico numero salvato che trovi, una volta a casa.
La scelta è la tua ma sappi che se scegli la seconda opzione dovrai fare come ti dico io per trenta giorni, senza nessuna possibilità di obiettare alle mie istruzioni.
Ora, a te la scelta. Hai sessanta secondi, poi dovrai rispondermi.”
Mi guardo attorno.
Non so, non so.
Mi esplode il cervello, non ho idea di che cosa fare, non so come scappare da questa gabbia mentale.
Sì? No? Sessanta secondi possono essere lunghissimi o brevissimi, ma temo che in questo caso siano i più brevi che abbia mai passato nella mia vita.
Trenta giorni, un mese e poi? No, non è la domanda giusta.
O sì? Che cosa succede in questi trenta giorni? Non lo so, non lo saprò mai in anticipo.
Non voglio…
Oh ma sì che voglio.
Non lo so, eppure lo so, sento il mio corpo desideroso di quelle strane attenzioni, ma mi vergogno, non sono così io, o forse si?
– Tic, toc, tic, toc.- Perentoriamente e sadicamente la voce della donna mi segna il tempo e mi fa letteralmente impazzire.
– Ok, ok. Va bene.
– Va bene cosa?
– Faccio come vuole lei per trenta giorni.
– Ne sei sicura?- Ora vuole instillarmi il dubbio? Lo fa apposta?
– Lo faccio. Prometto.-
Ma che diavolo ho detto? Lo prometto? Da quale sudicio anfratto del mio cervello è uscita questa affermazione?
– Va bene. Allora porta le chiavi della tua auto al portinaio e vai a casa a piedi. Niente mezzi pubblici o taxi. Voglio che cammini fino a casa. Intesi?
– Sì intesi, va bene.
– Bene. Attendo un tuo messaggio quando sarai a casa.
Passo dalla portineria e il portinaio mi saluta gentilmente, dopo che ho consegnato le chiavi dell’auto.
Esco dallo stabile e mi metto l’anima in pace, avrò da camminare per un’ora almeno.
Lo spacco mette in vista la mia coscia, la camicetta mette in risalto i miei seni e i capezzoli sicuramente; io cerco di camminare guardano dritta davanti a me, inforco un paio di occhiali da sole che ho nella borsa, anche se mi sembra una strategia stupida, ma qualcosa coprono, almeno gli occhi. Mi danno anche la possibilità di accorgermi, senza essere vista, degli sguardi che mi seguono o che mi fissano.
Mi sento esposta, messa in mostra davanti tutti da quella donna.
Il mio corpo reagisce in modo strano e non riesco a capirlo.
Sento quei due bottoni nelle mutandine, sono scesi in basso e mentre cammino mi stuzzicano dove non dovrebbero, quasi mi eccitano, anzi, senza quasi.
Le mutandine arrotolate tra le mie natiche sono anch’esse causa di pruriti non desiderati, e sento la pelle nuda del mio sedere a contatto della stoffa della gonna.
Beh la giacca del tailleur può coprire, ma potrò abbottonarla? No, non credo, ha detto che devo camminare così come sono. Spero solo che il movimento faccia da sé.
Quante strade nuove, quante persone che mi osservano, mi fissano. Uomini, donne, tutti.
Forse sto emanando una quantità di ormoni allucinante, o forse è solo il modo in cui sono vestita, la mia coscia che esce a ogni passo e i miei seni e capezzoli che non potrebbero essere più visibili.
È davvero una sensazione molto strana essere vestita e sentirsi nuda davanti a chiunque.
Ma quello che non vorrei continua ad accadere, i miei sensi sono piacevolmente attivati, continua una lotta impari tra il mio cercare di essere normale e queste sensazioni ed emozioni che continuano a mangiarmi il cervello, procurandomi un sottile piacere, che io non vorrei provare, ma credo che vinceranno loro alla fine.
I viali alberati e la brezza che soffia, mi danno un po’ di sollievo.
Lo so che il mio viso è rosso, perché sento dentro di me quella stessa vergogna che ho provato solo da bambina, quando venivo beccata a fare qualcosa che assolutamente era vietato, tipo mangiarmi le ciliegie sotto spirito.
Non l’avevo mai più provata, ma forse ora è ancora più forte.
Vorrei sotterrarmi, nascondermi in un nascondiglio introvabile, ma l’altra parte, quella che mi sta mangiando il cervello, me lo impedisce. Mi forza a fare quello che ho promesso di fare.
Finalmente arrivo al portone di casa.
Entro nell’atrio e vado dritta. C’è l’ascensore qua, la evito e mi rendo conto che c’è ancora una piccolissima parte di me che cerca di combattere.
Salgo le scale e per fortuna non incontro nessuno, apro la porta, entro in casa.
Immediatamente prendo il telefono, neanche mi siedo.
Mando un messaggio al numero che è salvato come ‘Signora Carla’. Non solo scrivo ciò che mi è stato chiesto, ma non so per quale motivo sento il bisogno di descrivere le sensazioni che ho provato e tutto ciò a cui ho pensato nel tragitto. Poi pigio invia.
«Brava! Ti contatterò io.» È la risposta scritta che ricevo.