Una prima volta

Di Browserfast
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Tutti noi sappiamo che non c’è una sola “prima volta”. Ce ne possono essere poche o parecchie, dipende un po’ dalle nostre personali fortune, ma che ce ne sia una sola beh, dai, è abbastanza difficile. Questa infatti è la storia di una “prima volta” un po’ curiosa, bizzarra se volete, che seguì diverse altre “prime volte”. Non l’ultima, probabilmente. Di certo una di quelle che mi ha aiutato a capire che il sesso è bello perché è vario. E che non siamo tutti uguali.

Anche se in un certo senso, come cercherò di farvi capire, sono sempre stato sicuro che il sesso in quella “prima volta” lì c’entrasse sì, ma non tantissimo. O almeno non totalmente.

Pensandoci bene, a distanza di tanti anni, credo che sia stata tutta colpa della lordosi. Sapete, quell’infossamento della colonna vertebrale che spinge in avanti il ventre e il bacino cui, di solito, segue una specie di curvatura in senso opposto che invece proietta il sedere all’indietro. Quella roba lì.

Ecco, Fabiana aveva una forma abbastanza accentuata di lordosi. Ragione per cui, quando me la ritrovai completamente nuda e sistemata a novanta gradi sulla scrivania sulla quale studiava, non seppi resistere.

Ma andiamo con ordine, volete?

Avevo conosciuto Fabiana in prima liceo. Era una ragazza lunga lunga, allampanata, con tette quasi inesistenti e questa specie di curva e controcurva tra il ventre e il sedere. Proprio perché era molto alta, l’effetto non era sgradevole, anzi. Direi piuttosto che era abbastanza sexy. Tutto il resto invece era abbastanza un disastro.

E non mi riferisco all’aspetto fisico. Era carina, senza esagerare. Diciamo che dai capelli fino alla radice del naso era molto bella. Poi, improvvisamente, il viso si allungava e le dava un aspetto che mi è sempre sembrato un po’ equino. Nulla di drammatico, eh? Ve lo ripeto, nel complesso era carina.

Era però di una timidezza disarmante. Bisogna immaginare una pertica adolescente con gli occhi costantemente in basso, come il capo, e un ditino sempre posato su un labbro. Quando qualcuno la osservava lo toglieva subito, come se in fondo se ne vergognasse, incrociava le mani dietro la schiena e cominciava a dondolare leggermente le spalle. A completare il quadro, un leggerissimo difetto nella pronuncia della esse.

Non avevamo tutto sto rapporto. Io, soprattutto, non avevo rapporti con nessuno in quella scuola. Li odiavo tutti, indistintamente, tranne tre persone: il prof di matematica, Fabiana e Patrizia, un’altra mia compagna di classe che di Fabiana era esattamente l’opposto sul piano del carattere. A me Patrizia piaceva, era caruccia e molto ma molto estroversa. Pure troppo, in un certo senso, visto che dall’inizio alla fine dell’anno il numero dei ragazzi che se l’erano sbattuta equivaleva più o meno alla metà della popolazione maschile delle quinte classi. Eh sì, il fascino dei più grandi…

In ogni caso l’anno seguente cambiai scuola e persi di vista sia Patrizia che Fabiana.

Quest’ultima la rividi diversi anni dopo. Era una bella mattina di primavera e avevo deciso di fare una bella passeggiata, evitando di prendere uno dei due autobus che mi riportavano a casa dall’università. Mi sentii chiamare e mi voltai, la vidi che mi sorrideva. Un sorriso timido, come al solito, il capo un po’ reclinato in avanti e le mani dietro la schiena. Era uguale a come l’avevo lasciata. Compreso il difetto quando pronunciava la esse. Ai quei tempi non è che si portassero i figli dal logopedista ogni tre per due, se uno aveva una piccola imperfezione se la teneva.

Camminammo insieme per un bel po’ e trovai la sua compagnia molto piacevole. Credo che fosse la prima volta che ci parlavo per più di cinque minuti di fila. Il suo modo di camminare a occhi bassi e con il capo reclinato non l’aveva abbandonata, tutt’altro, ma almeno un po’ della verecondia che la opprimeva ai tempi del primo liceo l’aveva abbandonata. Era diventata una ventenne riservata ma allo stesso tempo raffinata, chiaramente più colta della media dei nostri coetanei, intelligente. Era, questo ho dimenticato di dirvelo, una ragazza di buona famiglia.

Tra l’altro, il fatto che fosse timida non significa per nulla che fosse imbranata, anzi. La accompagnai a casa (abitava in una zona di palazzine anni trenta non molto lontana dall’università) e le chiesi se le sarebbe andato di andare a prendere qualcosa una sera. Magari la sera stessa o quella dopo, adesso non ricordo bene. Accettò. Non so perché lo feci, probabilmente per fare qualcosa di diverso dal solito, conoscere una ragazza nuova. Non avevo mire particolari. Ve l’ho detto, era carina a quattordici anni e carina era rimasta, ma non è che mi facesse impazzire. Però ci stavo bene e questo bastava, mi dissi. Poi sarebbe andata come sarebbe andata. Se ne fosse uscito qualcosa di più di una semplice conversazione in amicizia non mi sarebbe dispiaciuto, tanto per essere chiari. Sennò pace, bene lo stesso. Di certo non mi sarei annoiato, né l’avrei considerata una serata persa.

Un motivo c’era, naturalmente. Ed era questo: non è che mi mancassero le ragazze, in quel periodo. Non voglio atteggiarmi a seduttore che non sono mai stato, però non potevo lamentarmi. La frequentazione principale, chiamarla storia sarebbe troppo, era con una tipa che si chiamava Raffaella. Oggi si direbbe che eravamo scopamici. In realtà io nemmeno mi consideravo particolarmente suo amico. Raffaella aveva pregi e difetti. Il primo pregio, non il principale, è che era una gnocca davvero notevole. Viso carino, corpo fantastico. Ma la sua qualità migliore era un’altra. Era quella che volgarmente si definisce una ninfomane, ma è parola stupida, che non mi è mai piaciuta. Aveva un appetito e una disponibilità sessuale fuori dal comune, questo sì. Chiederle se le andava di vedersi equivaleva a chiederle se le andava di scopare. E la risposta era sempre, invariabilmente, sì. E scopare, per lei, non aveva limiti. Per dire: non è che le ragazze della nostra età fossero poi così tanto disponibili all’ingoio, lei sì. E poi tutto il resto. Tutto. Posso dire di avere posseduto qualsiasi parte del suo corpo. Sempre, ogni volta, dalla prima volta.

Per farlo avevamo a disposizione la casa che il padre di un mio amico fuorisede, Alessandro, gli aveva messo a disposizione. In realtà, poiché abitava molto vicino a Roma, lui in quella casa ci stava pochissimo. Ci passavamo molto più tempo io e un altro mio amico. A far cosa lo potete immaginare.

Oltre a essere una bella figa e ad avere praticamente sempre voglia di cazzo, Raffaella aveva altre due qualità. La prima era che il padre non voleva assolutamente che uscisse la sera, anzi le imponeva un coprifuoco dalle sette e mezza in poi. La seconda che era fidanzata in casa con un ragazzo di un paesello vicino Rieti, dove passava con la famiglia ogni fine settimana che dio mandava in terra. Che razza di qualità erano, vi chiederete. Beh, ve lo dico io. Erano qualità che mi risparmiavano la pena di passarci serate o addirittura week end in giro per strada o per locali. Perché, vedete, Raffaella era sì gnocca e troia, ma al tempo stesso era completamente deficiente. Lo so che è uno stereotipo quello della bella e scema. Me ne rendo conto e mi dispiace ricorrervi. Ma è così. Anzi, dire che era scema sarebbe persino un complimento. Era, ripeto, completamente deficiente. E vi assicuro che dopo un po’ la cosa si fece pesante.

Non è che non avessi voglia di scoparla, tutt’altro. Solo che a volte scambiarci un paio di chiacchiere non mi sarebbe dispiaciuto. Mi è sempre interessato parlare con le ragazze, con le donne, forse perché mi attraggono i punti di vista diversi dal mio. Con lei la cosa era, semplicemente, impossibile.

Proprio per questo, forse, avevo chiesto a Fabiana di uscire.

E’ vero, era timida. Ma non imbranata, ve l’ho detto. Sapeva cosa voleva. Ed evidentemente voleva me, l’aveva già deciso. Per questo, dopo una serata passata in una birreria a raccontarci un po’ di noi (del resto non ci conoscevamo quasi per nulla), non rifiutò il mio braccio che le cingeva la vita, né la mia carezza sui capelli prima e sul viso poi, né il mio bacio.

Quella sera limonammo in modo abbastanza pesante nella mia macchina, dove ebbi modo di conoscere sia le sue piccole tette – il reggiseno non le serviva e non lo usava – sia il suo modo di accelerare il respiro quando l’eccitazione saliva. Il pomeriggio successivo ci ritrovammo allegramente a scopare a casa del mio amico Alessandro, non prima che lei commentasse il nostro ingresso nella casa deserta con un allegro e fintamente ingenuo “ma allora era una trappola”.

Non era certo zoccola come Raffaella, e non potevo aspettarmelo, ma la scoperta del suo corpo e del suo piacere fu comunque una cosa bella. E soprattutto intensa.

La nostra storia cominciò così. Non è che fossimo innamorati, né che stessimo insieme, anche se di tempo insieme ne passavamo parecchio. Stavamo semplicemente bene l’uno con l’altra. Il sesso era una parte importante del nostro rapporto, ma non l’unica. Di solito a casa sua. Ci ritrovavamo lì a studiare il pomeriggio e sfruttavamo quella mezz’ora o poco più che intercorreva tra l’uscita della donna di servizio e il ritorno a casa della madre. Pomiciate, ditalini, cunnilingus. Più raramente pompini, che lei comunque non portava mai in fondo (anche se a me piaceva come me lo succhiava) ma cui ricorreva soprattutto per farmelo diventare di pietra prima di abbassarsi i pantaloni e sedervisi sopra dandomi la schiena. A me non è che quella posizione faccia impazzire, ma lei la gradiva molto. E a me, che mentre la chiavavo le accarezzavo le tette con una mano e la sgrillettavo con l’altra, in fondo non dispiaceva constatare come in quel modo i suoi orgasmi fossero più rapidi. Mi piaceva il modo in cui veniva. Ansimante, fatto di piccoli scatti e piccoli gemiti, del suo corpo che infine si rilassava contro il mio con il respiro ancora pesante.

Ricordo bene la prima volta che me lo imboccò dopo il mio orgasmo, provando la novità assoluta del mio sapore mescolato al suo. Di solito uscivo da lei prima di venire, più raramente usavo il preservativo, che ho sempre detestato e che comprai solo perché mi confidò che le sarebbe piaciuto che terminassi dentro di lei. Finché non mi annunciò, con il suo solito sorriso timido e a occhi bassi, che si era fatta prescrivere la pillola. Fu proprio dopo la “prima scopata della pillola” che si accucciò tra le mie gambe per succhiarmelo. E lo fece anche bene, salvo poi risollevarsi un po’ rossa in viso e guardarmi con l’aria di una che dice “oddio cosa ho fatto”. Non era una forma di studiata malizia, lei era proprio fatta così.

L’episodio di cui vi dicevo all’inizio avvenne una sera a casa sua, mentre ci preparavamo a trascorrere la nostra prima notte insieme. I suoi erano fuori per il week end e entrambi avevamo tirato fuori qualche cazzata con amici e genitori per restarcene da soli.

L’intenzione era quella di andare al cinema e poi di farci una pizza, tanto il tempo non ci sarebbe mancato. Ma alla fine decidemmo di restarcene in casa come due fidanzatini. E non facemmo male. A me per esempio sembrò un’ottima idea spogliarla completamente e farla sedere sul divano a cosce spalancate per leccarle la fica mentre la cena si freddava un pochino. Si freddò anche più del dovuto, a dire il vero, ma comunque ne valse la pena. Adoravo farla venire in quel modo, mentre lei mi guardava con l’aria stralunata e il ditino poggiato sul labbro inferiore. Ci sono donne che ti stringono le gambe sulla testa perché quasi non riescono a resistere al piacere. Lei invece le gambe le allargava, si spingeva in avanti, si offriva. E, gemendo, quasi supplicava. Adoravo anche questo.

Io avevo, per la verità, pessime intenzioni. Ero determinato a abbattere con lei il tabù dello sperma schizzato direttamente in gola e quello della sodomia. Volevo condurla a formulare, esplicitamente, quella richiesta che finora aveva espresso solo con gemiti e mugolii, volevo portarla a implorare “scopami”. Volevo in sostanza renderla un po’ zoccola come Raffaella.

Ma non era a questo che pensavo quando, finito di mangiare, la misi a novanta gradi sul tavolo. In realtà in quel momento avevo solo voglia di chiavarla, per tutto il resto ci sarebbe stato tempo. Avevamo tutta la notte e tutto il mattino seguente dinanzi a noi. Lei mi chiese, senza nessun tipo di allarme nella voce ma anzi con una sorta di timida allegria, “cosa fai?”. Un po’ il trionfo del pleonastico, ammetterete. Per questo non le risposi, limitandomi ad accarezzarle la schiena nuda e a passarle due dita sulla fessura della fica, che trovai già umida.

Fu quello il momento in cui, come vi dicevo all’inizio, la sua lordosi entrò in scena.

Non era la prima volta che la prendevo da dietro. Cioè, su un tavolo prima di allora mai, ma a pecora già diverse volte. In quel momento tuttavia, e chissà perché, il suo sedere sottile e ben disegnato mi sembrò puntare verso l’alto in modo più accentuato del solito. Molto più del solito. Sembrava quasi un’improvvisa collina poggiata sopra una pianura.

Ecco, in quel momento il sesso scomparì per un attimo dal mio orizzonte. Quel sedere mi sembrò troppo invitante per non essere sculacciato. Ma più per scherzo che per altro. Come una innocente goliardata.

La colpii, aspettandomi di vederla scattare tra il sorpreso e il divertito, aspettandomi un urletto di moderato dolore.

Da Fabiana uscì invece un gemito leggero ma di piacere puro, come quelli che emetteva quando la infilzavo con il cazzo. Immediatamente dopo tutti i suoi muscoli si rilassarono sul ripiano del tavolo.

Ammetto che restai interdetto per un attimo. Spiazzato. Tutto mi attendevo ma non quello. Le schiaffeggiai nuovamente le chiappe, con un po’ più di forza, e stavolta sì che arrivò l’urletto di dolore. Seguito subito, però, da un nuovo gemito e da un lieve contorcimento del corpo. Le sue reazioni alle mie sculacciate erano, in tutto e per tutto, identiche a quelle che aveva quando la prendevo.

E poiché piacere chiama piacere (e anche perché lo spettacolo che avevo davanti agli occhi aveva contribuito a rendermelo ancora più duro di quanto già non l’avessi) presi a scoparla, accompagnando le mie botte di cazzo con le sculacciate.

Mai mi era capitato e, devo riconoscerlo, anche in futuro raramente mi sarebbe ricapitato con tale intensità. Si muoveva come se volesse sfuggire dal dolore ma come se allo stesso tempo fosse inchiodata lì dal piacere, oltre che dalle mie spinte. I suoi gemiti divennero acuti come non erano mai stati, il suo ansimare quasi convulso. Il suo orgasmo esplose in un rantolo che per me, e anche per lei, rappresentava una novità assoluta. Divenne troppo anche per me, mi svuotai dentro il suo corpo gridando come raramente mi capita.

Eravamo esausti, affannati. Mi chinai sopra di lei, ansimavamo all’unisono. Quando mi rialzai vidi l’evidenza del bruciore sulle sue natiche. Le carezzai come se volessi lenirlo, quel bruciore. E forse lo volevo davvero. Solo in quel momento mi prese il timore di esserci andato un po’ pesante.

– Hai il culo tutto rosso, lo sai? – le dissi con un filo di ironia nella voce. In realtà temevo un po’ la sua reazione.

Si voltò e mi rivolse una rapida occhiata, per poi tornare ad abbassare gli occhi come al solito, sorridendo. Probabilmente dico una cazzata, anzi sicuramente, ma mi sembrò che si vergognasse del piacere provato ma al tempo stesso mi ringraziasse per averglielo donato.

Solo qualche ora più tardi, mentre ci prendevamo una pausa, completamente nudi sotto le coperte del lettone dei suoi, mi rivelò:

– Sai che da piccola mi piaceva quando mi punivano?

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2 Comments

  1. Quel che mi piace qui è sicuramente il tono ironico del tutto, unito a un elemento quasi originale: la nongnocca.
    La signorina del racconto è descritta onestamente, con tutti i suoi difetti, con tutte le caratteristiche di un soggetto che può suscitare eros e sorpresa, senza essere la tipica figona astrale bramosa di sesso in ogni forma modo e dimensione.

    Complimenti!

  2. Non so bene perché la mia risposta non sia entrata. Comunque era una cosa tipo: grazie, ma la non-gnocca è la vera gnocca. Le altre sono esseri mitologici

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